03 – L’indagine variazionale

Dieci incontri per apprendere una nuova arte

Libera sintesi dal Libro di Marianella Sclavi

Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Pescara, Le vespe, 2000 (ristampato nel 2003 da Bruno Mondadori)

TERZO CAPITOLO

L’indagine variazionale.

Il primo livello e il secondo livello

Distribuiamo un foglietto ad ognuno con questo disegno

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Questo esercizio è stato ideato dal Prof. Don Ihde, capo del di­partimento di filosofia della State University di New York

e chiediamo a ognuno di scrivere la prima cosa che gli viene in mente guardando questa figura.

Alcuni stanno vedendo questa figura come qualcosa di pieno, un cioccolatino o un lingotto, una piramide tronca, altri come qualcosa di vuoto, una stanza, un palcoscenico, una finestra aperta.

La prima cosa che viene vista corrisponde al livello 1 della visione. Viene chiamata “visione ingenua”

Adesso coloro che in prima battuta l’hanno vista come una piramide tronca devono cercare di vederla come un palcoscenico e coloro che l’hanno vista come un palcoscenico, come una piramide tronca. Quando ci sono riusciti dovranno cercare dì dire come hanno fatto a passare da una figura all’altra.

Definizioni:

Noesis = come guardiamo

Noema = cosa vediamo

LIVELLO 1 visione ingenua o piramide tronca o palcoscenico

LIVELLO 2 visione polimorfa piramid tronca/palcoscenico

Livello 1: guardiamo questa figura e vi riconosciamo lo scheletro di una stanza, di un palcoscenico, di una finestra. Chiuso. Siamo soddisfatti. Diciamo: “E un palcoscenico”. Oppure: “Quella forma corrisponde a quella di un palcoscenico”.

E’ una constatazione evidente, che esclude qualsiasi dubbio e con­traddizione, “apodittica”. È anche una “visione ingenua” perché a questo livello se un altro ci dicesse “È una piramide tronca”, noi ri­sponderemmo “No, ti sbagli. E un palcoscenico”. A questo livello si ritiene “infondata”, non fondata sulla realtà, qualsiasi altra interpretazione.

Livello II, polimorfo”: “Posso vederla come una piramide tronca, ma anche come un palcoscenico”.

Al Livello I: non c’è modo di riflettere su come ci muoviamo percettiva­mente. Anche qui abbiamo attivato una cornice, ma la diamo per scontata, non ne siamo consapevoli.

E solo al livello II, dopo aver fatto l’esperienza di un cambiamento di cornice, che ci rendiamo conto che quella precedente era una “visione ingenua”. “Ingenua” non perché sbagliata in quanto tale, ma perché implicava di essere l’unica possibi­le. Ed è solo adesso, a posteriori, che siamo in grado di riflettere sia sul­la modalità trasformativa (come abbiamo fatto?) sia sul ruolo attivo dell’osservatore nel costituire il senso di ciò che vede, sulla correlazione fra noema e noesis anche a livello I.

Livello II:questo è sìntetizzabile in una delle regole dell’arte di ascoltare: “Quel che vedi dipende dal tuo punto dì vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista”.

Riflessione sulla trasformazione

4. Atteggiamento riflessivo: come è avvenuta la trasformazione? Co­me posso dare istruzioni ad un altro perché la compia anche lui? La fe­nomenologia ha individuato due strade che in realtà sono comple­mentari.

Nella prima quello che vediamo è dominato dal piano di prospettiva da cui lo guardiamo. Quindi uno dice: devi collocarti in alto, in basso, vicino, lontano, den­tro o fuori, da questa angolazione, da quest’altra, ecc… Questa strate­gia richiede una certa consapevolezza dei meccanismi della percezione e del ruolo attivo del soggetto nella percezione. Nella polarità noesis-noema, ci si riferisce esplicitamente a come cambiare il primo (il come guardiamo) per trasformare cosa vediamo.

La seconda strada si affida al potere evocativo e metaforico delle paro­le, del linguaggio. Uno dice all’altro: “Prova a vedere questa figura co­me un cioccolatino”. L’altro pensa intensamente a un cioccolatino e più facilmente mette a fuoco la figura in modo da vederla come tale. Se io avessi iniziato questo esercizio dicendo: “Oggi parleremo di un cioccolatino” e solo dopo avessi disegnato questa figura, tutti voi l’a­vreste più facilmente vista come un cioccolatino, come una piramide tronca. Il potere metaforico delle parole viene usato per evocare un contesto noetico implicito che consente un certo risultato percettivo. In questo caso non si parla esplicitamente dei meccanismi della perce­zione e non è neppure necessario conoscerli, si “racconta una storia”. La storia narrata evoca un contesto dentro il quale l’esperienza prende forma.

5. Se adesso dico: “Questa figura è una piramide tronca”, questa affer­mazione la giudichereste giusta o sbagliata?

Varie voci: “Sbagliata!!”. Una ragazza: “E solo parzialmente giusta”. Un’altra ragazza (sorridendo): “E una descrizione ingenua…”. Diventa sbagliata se quel predicato “è” implica: “Può essere vista solo e unicamente come una piramide tronca”.

Ma se il senso di quella affermazione corrisponde a: “Può essere vista come una piramide tronca”, non è sbagliata, è solo inadeguata, incom­pleta. Una descrizione più adeguata, lo abbiamo visto, sarebbe: “Può essere vista come una piramide tronca oppure come un palcoscenico a seconda della prospettiva”.

Ogni volta che ci troviamo di fronte a un fenomeno complesso, da più prospettive lo vediamo e più adeguata sarà la sua descrizione e com­prensione. Ma manca ancora qualcosa. In una prospettiva fenomeno­logica “una descrizione adeguata” deve anche rendere trasparenti le modalità trasformative. L’interlocutore deve non solo riuscire a vedere i cambiamenti del noema, di ciò che vediamo, ma dobbiamo riuscire a descrivere anche le dinamiche noetiche (del modo di guardare) che ac­compagnano tali cambiamenti.

Chiamiamo “adeguata” una descrizione che rende esplicita la correla­zione fra ciò che è esperito (noema) e il suo modo di essere esperito (noesìs) e trasparenti le dinamiche trasformative che consentono di mettere in luce tale correlazione.

6. Il passaggio dal livello I al livello II ha una proprietà non transitiva. Questo vuoi dire che la “visione ingenua” una volta perduta non è più recuperabile. Ormai anche se ci limitiamo a dire “la vedo come una stanza”, sappiamo che è possibile vedere questa figura anche in un altro modo. E sappiamo che per fornirne una descrizione adeguata dobbia­mo ogni volta ripercorrere il campo delle possibilità. Ma, ecco il pun­to: questo ripercorrere il campo delle possibilità (anche se adesso “sap­piamo come si fa”) è e rimane un’esperienza strana, ogni volta ci pro­voca un senso di disagio che tenderemmo a cancellare, a dimenticare e sul quale invece bisogna fermarsi a riflettere.

Rivediamo dunque questo processo al microscopio e al rallentatore, puntando Ì riflettori su questo senso di disagio. Siamo al livello II, ma non possiamo vedere contemporaneamente un palcoscenico e una pi­ramide tronca, le possiamo vedere solo in successione. Fra le due visio­ni, entrambe apodittiche, c’è un salto. Le due esperienze si elidono e per passare dall’una all’altra l’osservatore deve cambiare il modo di connettersi a se stesso e al mondo esterno. Deve — ogni volta — passare da un atteggiamento passivo ad uno attivo. Deve muoversi, diventare coprotagonista, compiere una scelta, assumersi una responsabilità. Ogni volta dobbiamo sradicarci da una cornice e avventurarci alla ri­cerca dell’altra.

Questo salto è un’esperienza che emotivamente si esprime in un senso di sconcerto e disagio e analiticamente in un senso di paradossalità che poi, al punto dì arrivo, diventa senso di scoperta, di riconoscimento, di stupore, di rì-radicamento. Quindi nel superare la “visione ingenua” non abbiamo “smesso di essere ingenui” (come ci suggerirebbe il senso comune), ma in un certo senso abbiamo imparato ad esserlo ogni volta provvisoriamente.

Nel rendere trasparente “come si fa”, le emozioni sopra nominate han­no un ruolo cognitivo fondamentale.

Il terzo livello

7. Finora da un punto di vista della logica della scoperta fenomenolo­gica, abbiamo solo sgranchito le membra, ci siamo limitati alla ginna­stica preparatoria. L’indagine variazionale entra propriamente e piena­mente in funzione solo quando si passa dal livello II al livello III. Pro­seguiamo, dunque.

Si apre quella porta ed entra una persona la quale guardando la figura che noi chiamiamo “palcoscenico/piramide tronca”, esclama: “Oh, avete disegnato un robot senza testa!”. Orbene, quello che dovete fare è cercare di guardare questa figura in modo da vedervi un robot senza testa. Poi di nuovo dovrete dirmi come avete fatto. Per aiutarvi disegno la testa mancante. Eccola:

O

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Figura 2. Robot senza testa.

Questa trasformazione richiede più tempo e una parte degli studenti non ci riescono. Parecchi non sono sicuri se ci sono riusciti o no. Chiedo a coloro che ci sono riusciti di aiutare gli altri. Come hanno fatto?

Scartiamo come non convincenti tutte le descrizioni riconducibìli a una piramide tronca con appiccicata sopra una testa o a un palcosceni­co con una testa.

Un ragazzo: “Bisogna vederla su due dimensioni. Appiattita”. Bravo. Ma queste istruzioni sono sufficienti? Parecchi fanno cenno di no.

Prima avete detto “Mi colloco sopra, mi colloco dentro”, adesso dove vi collocate?

Anche qui devono pensarci più a lungo. Una ragazza: “Bisogna mette­re a fuoco la testa e guardare la figura da lontano”. Provateci, vediamo se funziona. Quasi tutti, confabulando un po’ fra loro, ci arrivano. Era un buon suggerimento, un suggerimento adegua­to.

Vado alla lavagna e ripercorro la figura. Il rettangolo tratteggiato è il corpo, le due linee laterali superiori sono le braccia e quelle inferiori le gambe. E le lìnee di congiunzione sono… due bastoncini ai quali si ap­poggia per camminare e la linea del pavimento.

Un ragazzo, trionfante: “Bisogna vederlo come un robot senza testa che salta alla corda!”. Tutti ridono. Un ottimo suggerimento: strategia ermeneutica.

8. La variazione dalla tridimensionalità alla bidimensionalità è più

drammatica dì quella precedente. È una variazione che ci ha spiazzato.

Questa sensazione di spiazzamento di cosa ci informa?

Silenzio. Una ragazza: “Che uscivamo dal quadrato… da una cornice

che davamo per scontata”.

Bravissima. In questo caso specifico possiamo dire (ma potevamo dirlo anche per il quadrato, nel gioco dei nove punti) che lo spiazzamen­to ci informa che davamo per scontato di aver esaurito il ventaglio delle possibilità.

9. Però quella testa-fantasma ci da anche l’impressione che il gioco sia divenuto un po’ artificioso, che ci sia qualcosa di irregolare. Non è che per caso stiamo barando? C’è questo senso di disagio. Al tempo stesso siamo costretti a riconoscere che una cosa che non c’è, una testa fanta­sma che abbiamo aggiunto artificialmente, sì è dimostrata utile nel passaggio dalle tre alle due dimensioni. Senza di lei, sarebbe stato più difficile. E strano, ma è così.

Con il livello III entriamo nel dominio della fenomenologia. Un do­minio dove buona osservazione e logica della scoperta fenomenologica sono sinonimi.

Al livello II eravamo convinti che il contesto noetico, cioè il campo delle possibilità da esplorare, fosse limitato. Che prima o poi fosse pos­sibile asserire: “Basta. Ho percorso tutte le strade, tutte le possibilità”.

Al livello III succede che proprio quando credevamo di aver esaurito le possibilità, arriva una testa fantasma e capiamo che ci eravamo illusi. L’indagine variazionale nasce dalla distinzione fra variazioni entro un campo di possibilità e variazioni di quel campo. Comporta la consape­volezza che possiamo sempre trovare un campo più vasto entro il quale il campo che stavamo esplorando cambia esso stesso. Quindi a questo livello non abbiamo solo un supplemento imprevisto di trasformazioni del noema (ciò che si vede), ma è la stessa concezione del contesto noetico (modo di vedere) che cambia: prima lo concepivamo come chiuso, adesso è aperto. Prima prevedeva possibilità limitate, adesso illimitate.

Attività del soggetto

11. È solo con l’indagine variazionale che il soggetto che osserva da passivo diviene pienamente attivo, consapevole dei propri poteri e del­le proprie possibilità.

Nel grafico, sotto a “Indagine variazionale”, ho scritto “Polimorfo R.”. La R sta per “con resistenza”, ad indicare che questo passaggio (la va­riazione del campo) non è “naturale”, richiede una speciale consapevo­lezza e uno speciale allenamento.

Alla R potremmo aggiungere una “I” per “immaginazione”, per sotto­lineare il ruolo cruciale giocato in questo passaggio da ciò che non c’è nel “normale” ventaglio di possibilità. Qualcosa che non c’è ci aiuta a fare un salto da un intero campo di possibilità, da un intero insieme di prospettive, ad un altro.

Il caso invece dell’immaginazione.

Vorrei proporvi una variazione del caso in cui “entra uno ed esclama: vedo un robot senza testa”. Prendo lo spunto da un film. Il titolo in italiano credo sia “Devono es­sere tutti pazzi” o qualcosa del genere, in inglese è “The Gods must be crazy”. Inizia con la scena di un aeroplano che passa su una terra di aborigeni africani, una popolazione che non ha mai avuto alcun con­tatto con il resto del mondo e in particolare con la civiltà occidentale. Questi aborigeni hanno visto spesso passare degli aeroplani e sono convinti che siano degli uccelli degli dei. II pilota dell’aereo butta giù una bottiglietta vuota di Coca Cola, di quelle di vetro. Gli aborigeni raccolgono questo oggetto, che chiaramente è un dono degli dei. Sco­prono che si impugna bene ed è sufficientemente duro, ottimo per tri­tare delle sementi e altri usi analoghi. La cosa che a loro non viene in mente è di usarlo come un contenitore dì liquido. Sono abituati a bere usando le mani o delle ciotole. D’altra parte come raccoglitore della pioggia non sarebbe molto efficace.

La domanda è questa: potete immaginare un percorso attraverso il quale qualcuno di loro “inventi la bottiglia”?

Silenzio. Possiamo pensare a un percorso casuale. Un giorno per caso questo oggetto cade in un contenitore d’acqua e si riempie e chi se ne occupa nota che l’acqua non esce facilmente da quel contenitore, biso­gna rovesciarlo. A questo punto, siccome è un cacciatore, gli viene in mente che potrebbe essere particolarmente utile per portarsi dietro dell’acqua quando si allontana dal villaggio. Ha inventato la bottiglia. È un processo analogo alla “scoperta” del fuoco o della ruota. In segui­to potrebbero imparare a riprodurre quella forma con i materiali e mezzi tecnici a loro disposizione.

Per “inventare la bottiglia” quell’aborigeno deve aver assunto un atteg­giamento di indagine variazionale. Nell’indagine variazionale il caso gioca un ruolo molto importante. La conoscenza va vista come un processo stocastico: da un lato una mente predisposta al Cambiamen-to2, dall’altro qualcosa che non c’entra niente, (qualcosa di “marginale e fastidioso”, abbiamo detto negli esempi precedenti…) che ci permet­te di cambiare cornice. Un altro aborigeno avrebbe considerato questo incidente come un infortunio e continuato a usare quell’oggetto come prima.

Comunque nel film questo non succede. Succede che gli aborigeni in­cominciano a contendersi questo oggetto sacro, scoppiano delle zuffe. Allora gli anziani si riuniscono e decidono che la cosa più saggia è resti­tuirlo agli dei. Incaricano un giovane e coraggioso guerriero di mettersi in cammino fino ad arrivare ai lìmiti del mondo dove abitano gli dei

per restituirlo. E qui inizia l’avventura di questo poveretto che cammi­na, cammina, arriva ai limiti di un campo dì aviazione…

Oggettivo e soggettivo

Torniamo alla nostra figura sulla lavagna. Una domanda: cosa rappresenta questo disegno “oggettivamente”?

Sorrisi imbarazzati, sguardi divertiti. Un ragazzo: “Oggettivamente rappresenta delle linee disposte in un certo modo”. Stai dicendo che questo disegno è descrivibile con l’apparato concet­tuale e la terminologia della geometrìa euclidea. Un piano, delle linee, degli angoli, delle forme geometriche astratte. Lasciamo perdere che non esiste solo la geometria euclidea, anche perché le argomentazioni relative sono al di sopra delle mie capacità. Ma cosa rispondi se ti chie­do: “OK sono linee disposte in un certo modo: quale? A quale figura geometrica corrispondono oggettivamente?”. Noi adesso sappiamo che questa figura può essere vista in almeno tre modi diversi fra loro. Non solo il passaggio dal livello I al livello II è “non transitivo”, ma an­che quello dal II al III. Dopo questo esercizio di fenomenologia speri­mentale il termine “oggettivo” ci mette a disagio, ci da un po’ fastidio. Ci pare una domanda confusionaria, priva di senso. E un termine non adeguato alla complessità del fenomeno di cui stiamo trattando. Dovremmo chiedere: “Oggettivamente” in che senso, da quale punto di vista? A partire da una visione della realtà apodittica, polimorfa o variazionale?

Adesso sappiamo che la prospettiva dell’osservatore non è eliminabile, così come non è eliminabile il suo contesto culturale di origine. Una risposta adeguata va formulata non in termini di “è questo”, ma in ter­mini di varie possibilità e delle loro trasformazioni.

Mettiamo che uno di voi abbia detto: “Vedo quella figura come un coccodrillo”. Possiamo qualificare questa osservazione come “sog­gettiva”? Silenzio perplesso.

La dichiarazione “Lo vedo come un coccodrillo” può sembrarci un po’ (o molto) artificiosa. Non si capisce su che basi si possa vederla come un coccodrillo, però siccome anche un robot senza testa ci sembrava “infondato”, a questo punto siamo più cauti. Se reagiamo difensiva­mente rispondiamo: “No, sbagli. Il tuo punto di vista è soggettivo, va­le solo per te”. Ma cosa vuoi dire: “Vale solo per te”? Che non abbiamo tempo per l’esplorazione, per l’ascolto attivo. Ci viene più comodo troncare il dialogo. Se reagiamo esplorativamente, diremo; “Non riusciamo a vederla come un coccodrillo. Come fai a vederla così? Cosa devo fare per vederla anch’io anche come un coccodrillo?”.

15. Sia il termine “oggettivo” che quello “soggettivo” in una prospetti­va fenomenologica (nella prospettiva dell’arte di A/O) sono dei con­cetti e degli stadi provvisori, che vanno macinati nel processo di inda­gine variazionale.

Allora ognuno può dire quello che vuole? Allora “tutto va bene”? Dob­biamo abbandonare l’ordine per il caos? Abbandonare ogni criterio di verifica empirica?

No, dobbiamo scegliere fra l’ascolto passivo e quello attivo. L’ascolto attivo non richiede dì abbandonare l’osservazione empirica, al contra­rio, richiede una modalità di osservazione molto più accurata e riflessi­va, attenta ai particolari e alle forme, meno soggetta all’urgenza classi­ficatoria e all’influenza del senso comune. È “osservazione sperimenta­le” in modo pieno, radicale. E quindi osservazione scientifica in modo pieno e radicale.

Due cose che un buon ascoltatore non può permettersi sono: non ri­spettare l’interlocutore e non essere curioso di altre cornici, altre visio­ni del mondo.

Dopo di che può darsi benissimo che in quel momento non abbiamo tempo e può darsi benissimo che l’esplorazione porti a dei risultati non convincenti.

Per esempio. Mi dice: “Se disegno sopra la mascella superiore (una ma­scella superiore fantasma) e vedo il pavimento come quella inferiore e immagino la parete di fondo come la gola…”.

Replico: “Ah, adesso capisco cosa intendi. Ma così il coccodrillo è co­me un palcoscenico con delle fauci e la coda. Non comporta una vera trasformazione di cornice. Da questo punto di vista prendere il cocco­drillo come immagine di riferimento non è conveniente. È più econo­mico il palcoscenico”.

Colui che ha detto “Vedo un coccodrillo” ha dimostrato una notevole fantasìa. E anch’io, dopo che mi ha spiegato come ha fatto, posso “ve­dere un coccodrillo”.

Immaginazione e fantasia

Oltre all’immaginazione, c’è la fantasìa. Un esempio delizioso di cos’è la fantasia ce lo offre Vygotskij nel suo Immaginazione e creati­vità nell’età infantile. L’esempio è preso da un racconto di Puskin: “In riva a un golfo c’è una quercia verde; su quella quercia c’è una catena d’oro: e giorno e notte, un gatto sapiente, legato a quella catena, gira e rigira a tondo. Se procede verso destra, esso intona una canzoncina; verso sinistra, racconta una favola. Quello è il paese delle meraviglie. Là lo gnomo va errando intorno, e la silfide sta appollaiata sui rami; là, per ignoti sentieri, si scorgono orme di animali mai veduti, e una piccola isbà, sospesa su zampe di gallina, se ne sta là senza finestre e senza porte”.

Commenta Vygotskij: “La piccola isbà sospesa su zampe di gallina non esiste, di certo, fuorché nella favola; ma gli elementi con cui questa im­magine fiabesca è stata costruita, sono stati presi dalla reale esperienza umana, e soltanto la loro combinazione reca l’impronta d’una costru­zione fiabesca”.2

Invece nella “immaginazione”, alla fine del processo la combinazione degli elementi deve essere riportabile “alla realtà”, cioè a uno o più di uno dei modi possibili di inquadrarla.

TAVOLO O CAPANNA: ASCOLTO ATTIVO FRA GENITORI E FIGLI

Voglio tentare di agganciare l’esercizio precedente con alcuni esem­pi che fanno da ponte verso l’osservazione di casi della vita quotidiana.

Immaginate di essere in una stanza da pranzo dove due bambini hanno messo una coperta sopra il tavolo in modo che arrivi fino a terra e passano molto tempo infilati lì sotto, vi hanno portato dei loro gio­cattoli, una lampadina, dei cuscini, ecc… Mettiamo che noi ci propo­niamo di capire il significato di questo allestimento scenico, di descri­vere come viene costituito e mantenuto.

Potremmo incominciare col chiedere ai bambini che cos’è quella strut­tura e loro rispondono: “E la nostra capanna”. Poi osserviamo come si comportano, come la usano, e concludiamo: “Effettivamente usano questa struttura come una capanna”.

Ma questa, per quanto utile, non è ancora una descrizione fenomeno­logica, non c’è nessuna trasformazione di cornici, nessuna resistenza. Per una descrizione fenomenologica bisogna attendere che succeda qualcosa che mette in discussione delle Premesse che gli attori danno per scontate e poi descrivere come viene gestita questa crisi. Quali resistenze emergono e quali dinamiche vengono messe in atto. Quindi dobbiamo stare li, in quella stanza, e aspettare che succeda qualcosa (oppure provocare noi qualcosa).

Entra la madre e dice: “Ma che cavolo fate? Devo preparare la tavola per il pranzo. Levate subito via questa coperta e tutte queste scarabat­tole!”. Ecco che la situazione si fa già più interessante. I bambini: “Neanche per sogno! Questa è la nostra capanna e non si può mangiare sul tetto di una capanna”. La madre: “Quante volte vi ho detto che questo è il tavolo da pranzo e che voi dovete giocare in ca­mera vostra”. I bambini si mettono a piangere e corrono dal papa. Il papa sì commuove. “Questo tavolo ormai è diventato la loro capanna, guarda quanto impegno ci hanno messo, non c’è niente di male se ogni tanto mangiamo in cucina”. La madre, brontolando, cede. In sintesi. La madre: “E un tavolo da pranzo e non può essere usato di­versamente”. I bambini: “E la nostra capanna e non può essere usata diversamente”. Il padre: “Può essere visto e usato sìa come tavolo che come capanna”.

Un piccolo inciso. Il fatto che i bambini trasformino cosi spesso i tavoli in capanne è connesso al loro piano di prospettiva. Sono più bassi degli adulti e quindi del tavolo a loro non interessa il piano supe­riore (che non sono in grado di vedere se non salendo su una sedia), ma la cavità sottostante. Per i bambini, i tavoli sono delle cavità con un tetto. Se Ì bambini avessero il potere, con molta probabilità si mange­rebbe dentro la capanna, sotto il tavolo.

Nella nostra società, per parafrasare Gertrude Stein, “un tavolo è un tavolo, è un tavolo”. Per cui diciamo: “Usano il tavolo come una ca­panna”. Costruiamo tavoli, da usare come tavoli e gli altri usi sono de­finiti “impropri”. E tuttavia se nell’esempio fatto sopra noi vediamo che nella sequenza delle reciproche reazioni madre e figli non sì schio­dano dalle loro definizioni della situazione, non fanno alcuno sforzo di accogliere i reciproci punti di vista, non si danno reciprocamente spazio, possiamo dire che stanno adottando un atteggiamento di ascolto passivo. Il padre cerca di far valere un ascolto attivo, riconoscendo la legittimità delle cornici sia dell’una che degli altri. Se il radicamento nelle proprie cornici sia di madre che figli è molto forte (nel caso in questione sarebbe veramente patologico, ma non è così raro…), il padre dovrà usare tutta la sua autorevolezza per indurli a mettersi in uno stato d’animo di accoglimento-esplorazione dì “altri mondi possibili” del tipo “è un robot senza testa”; se invece si tratta so­lo di una piccola litigata, basta il passaggio dalla piramide tronca al palcoscenico. Nel primo caso parliamo di gestione creativa dei conflit­ti, nel secondo di un’opera di mediazione.

Chi osserva fenomenologicamente osserva se e come la gente è capace o no di gestione creativa dei conflitti.

La domanda da cui prende l’avvio una descrizione fenomenologica è sempre: quando delle cornici (le premesse date per scontate) vengo­no messe in discussione, gli interlocutori, i soggetti in questione, come gestiscono questa crisi? Mettono in atto un ascolto passivo o un ascol­to attivo?

Quando un bambino impara la propria lingua materna, gioca, e gli adulti giocano con lui. Questo rapporto giocoso non è qualcosa di su­perfluo, dì aggiuntivo, è un tratto vitale delle dinamiche emozio­nali/cognitive di quello che Gregory Bateson ha chiamato “deuteroapprendimento”.

Se il bambino indica gli occhiali e dice “mela”, la madre di solito non gli dirà “sbagli”, “sei uno stupido”, più facilmente sì compor­terà come se pensasse: “Ma guarda come è intelligente questo bam­bino che ha associato la forma rotonda della mela alla forma roton­da delle lenti!” e trasformerà questo “errore” in un gioco dentro il quale il bambino impara a chiamare “occhiali” gli occhiali, ma an­che lei ha imparato qualcosa di nuovo, ha “giocato” con ciò che pri­ma dava per scontato. Questo è già un piccolo esempio di “ascolto attivo”, è già apprendere ad apprendere, doppia descrizione, visione binoculare.3

Anche le brave insegnanti delle elementari spesso si comportano così. Di fronte al bambino che ha scritto “belo” invece di “bello”, sì chiedono: “Come interpretava questo compito, da quali interessi era ‘preso’ nell’affrontarlo?”. Probabilmente la sua attenzione era centrata sul “tenere la riga” e/o sulla forma di ogni singola lettera. Solo se l’inse­gnante è un’esploratrice dì mondi possibili,1 il bambino imparerà che la differenza fra “belo” e “bello” è essa stessa frutto di un’esplorazione di mondi possibili. Ma guarda: grazie a questo errore, hai imparato a scrivere due parole (una è una voce del verbo belare…) invece che una sola!5

Maria Montessori

Maria Montessori: una virtuosa dell’indagine variazionale. Una pic­cola premessa. La Montessori è stata la prima donna medico in Italia.7

A Roma, nel 1893, la sua domanda di iscrizione alla facoltà di medici­na venne dapprima rifiutata in quanto “le donne non erano adatte per questo tipo di professione”. Non solo il suo proposito veniva accolto con dileggio dalle istituzioni preposte, ma anche in famiglia suo padre minacciava di ripudiarla {e infatti, poi lo fece). Per sua fortuna la ma­dre Renilde, una donna colta e dì grande apertura mentale, non smise mai di appoggiarla. Maria decise di chiedere appoggio direttamente al­l’uomo più potente a disposizione: il Papa. Leone XIII si schierò dalla sua parte dichiarando ufficialmente che “fra tutte le professioni, quella più adatta per una donna era proprio quella di medico”. Spalleggiata dalla madre e dal Papa, Maria riuscì ad iscriversi e a seguire gli studi di medicina. Dopo la laurea la Montessori divenne assistente volontaria nella cllnica psichiatrica dell’università dove assunse presto il ruolo di ispettrice degli istituti per ritardati mentali. In questi istituti venivano tenuti tutti assieme sia i bambini ritardati mentali che gli adulti psico­tici, cosa che giudicava un errore madornale. Cosicché, quando le ca­pitò l’occasione, accettò di andare nel quartiere di San Lorenzo a diri­gere un ricovero per bambini con ritardi mentali. Anche questa sua de­cisione vide la riprovazione dell’ordine dei medici, che ritenevano di­sonorevole che un loro membro si degradasse ad “assistente sociale”. Nel giro di pochi anni Ì “ritardati mentali” furono in grado di superare gli esami statali regolari corrispondenti alla loro classe di età. La Mon­tessori divenne famosissima a livello internazionale e considerata “un genio”, capace di miracoli. Nei suoi libri spiega con estrema cura e det­taglio la centralità della osservazione guidata dall’ascolto attivo per l’e­laborazione del suo approccio pedagogico, caratterizzato dall’offrire ai bambini possibilità di esplorazione e di scoperta e di apprendimento reciproco. Nei decenni seguenti vennero fondate numerose scuole Montessori per bambini “normali”,B le quali tuttavia nel 1934 furono chiuse dal fascismo e Maria fu costretta a rifugiarsi all’estero. I regimi totalitari e l’ascolto attivo non vanno molto d’accordo. Morì in Olan­da nel 1952.

Ed ecco l’esempio. Nelle sue visite di ispezione la Montessori aveva no­tato che i bambini tenuti in questi istituti passavano una buona parte del loro tempo sotto Ì tavoli a raccogliere le brìciole dei pasti. Questo comportamento veniva interpretato comunemente in due modi: o come ebbe occasione di dichiarare in seguito: “Mentre tutti erano in ammirazione dei miei ritardati, io incominciavo a chiedermi quali potevano essere le ragioni per cui i bambini normali delle scuole ordinarie imparavano talmente poco che i loro esami potevano venire superati anche dai miei allievi meno fortunati e meno dotati”.

prevalentemente come segno del “fatto” che i poverini erano così de­nutriti e affamati da essere indotti a raccogliere e mangiare perfino le briciole; oppure come dimostrazione del loro ritardo mentale, sì com­portavano come degli animaletti. O anche come una somma di en­trambi: degli animaletti affamati. Queste erano le “tipizzazioni vigen­ti”, date per scontate. Questo significa che non si riteneva dì dover os­servare meglio, che tutti i particolari che non rientravano in queste vi­sioni e spiegazioni venivano dismessi come irrilevanti, “non notati”. Ma Maria era una buona osservatrìce, non aveva fretta di arrivare alle conclusioni. Come scrive nei suoi libri, si sedeva e si prendeva il tempo di osservare anche quei particolari che non rientravano nelle tipizza­zioni. Si accorse così che quello di stare sotto i tavoli e raccogliere le briciole per questi bambini “era un gioco”, infatti era l’unico gioco che quell’ambiente deprimente e totalmente privo di stimoli offriva loro. Quei bambini si annoiavano e avevano inventato “il gioco delle bricio­le sotto il tavolo”. Forse non erano così ritardati come si pensava.

04 – Esiste l’oggettività?

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