05 – L’autoconsapevolezza emozionale

Dieci incontri per apprendere una nuova arte

Libera sintesi dal Libro di Marianella Sclavi

Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Pescara, Le vespe, 2000 (ristampato nel 2003 da Bruno Mondadori)

Quinto capitolo

 

LINGUAGGIO DELLE EMOZIONI E VITA QUOTIDIANA

(RETORICA DEL CONTROLLO E AUTOCONSAPEVOLEZZA

EMOZIONALE)

Ascolto attivo = autoconsapevolezza emozionale + gestione creativa dei conflitti

Autoconsapevolezza emozionale = ascolto attivo + gestione creativa dei conflitti

Gestione creativa dei conflitti = ascolto attivo + autoconsapevolezza emo­zionale

Nei primi 4 incontri abbiamo parlato di “ascolto attivo”, introduciamo ora il concetto di autoconsapevolezza emozionale, che contrapponiamo alla “retorica del controllo”

La retorica del controllo

Chiamiamo “retorica del controllo” il punto di vista dominante che si impernia sulla credenza che le emozioni disturbano la co­noscenza del mondo circostante e “autoconsapevolezza emozionale”, il punto di vista opposto: le emozioni sono strumenti preziosi e fondamentali per la conoscenza del mondo sociale e cultura­le di cui siamo parte.

Analizziamo la  “Retorica del controllo”

Nella vita di tutti i giorni una quantità di esperienze piccole e grandi diventano per noi “la prova” che l’ interpretazione dominante è proprio giusta.

Marianella Sclavi, nel suo libro a cui ci ispiriamo, analizza tre dì queste espe­rienze fra quelle più largamente condivise.

 

Primo esempio. Una persona irata o innamorata o depressa non è nelle migliori condizioni per osservare le situazioni o gli ambienti; tenderà a vedere solo certi aspetti e non altri, a equivocare ciò che viene detto e a dare giudìzi precostituiti.

Questa esperienza viene assunta come evidenza che le emozioni distur­bano la conoscenza. Da questa evidenza ci sembra logico dedurre che per osservare e giudicare in modo più equilibrato e oggettivo una situazione dobbiamo adottare un atteggiamento “disinteressato”, dobbiamo controllare o sopprimere o mettere fra parentesi le nostre emozioni e gli inaffidabili giudizi di valore che esse comportano. Dobbiamo cercare di vedere e vìvere la realtà quotidiana prescindendo dalle emozioni che essa tende­rebbe a suscitare in noi. Coinvolgimento e distacco ci appaiono come poli opposti: o l’uno o l’altro.

Secondo esempio. Di solito nella vita quotidiana noi non decidiamo di provare delle specifiche emozioni, le proviamo e poi decidiamo dì cosa si tratta. Le emozioni si presentano alla coscienza come reazioni invo­lontarie a degli stimoli ambientali, come “giudizi privi dì premesse”, come “azioni di cui decliniamo la responsabilità”. Inoltre una stessa si­tuazione può provocare in persone diverse reazioni emozionali diverse e noi stessi in momenti diversi possiamo viverla in modo diverso. Queste esperienze vengono assunte come dimostrazione del carattere pre-sociale delle emozioni, del loro presentarsi come risposte istintive, deter­minate dalla nostra costituzione biologica e/o dalle idiosincrasie e va­riabilità della nostra personalità.

Terzo esempio. So che non devo attaccare il mio superiore, ma senti­menti di rancore ed ira mi spingono a farlo. Devo autocontrollarmi. La mia parte razionale deve cioè anticipare e limitare i sentimenti irrazio­nali che mi indurrebbero a mettere in atto comportamenti impulsivi e primitivi. Questa esperienza viene assunta come evidenza che le emo­zioni sarebbero le cause dell’azione a meno che la ragione non intervenga. La ragione-razionalità in comando dovrebbe idealmente regolare l’in­tensità delle emozioni un po’ come regoliamo il volume di una radio, girando una manopola. Uno dei consigli più frequenti nella nostra cultura è allearsi con le emozioni buone per abbassare il volume di quelle cattive e possibilmente renderle totalmente inoffensive (l’angelo e il diavolo…). Ovvero: cambiate canale.

Queste inferenze: le emozioni disturbano la conoscenza, sono pre-sociali, vanno controllate e regolate dalla ragione-razionalità, ci appaiono così incontrovertibili da non necessitare ulteriori indagini

Nella retorica del controllo:

1. viene data un’assoluta priorità alla valutazone delle emozioni in termini di “positive” e “negative”, “razionali” e “irrazionali”. Questa sembra essere la prima informazione che interessa, in quanto parliamo di qualcosa che rischia di sfuggire al nostro controllo, qualcosa di sel­vaggio, un pericolo per l’ordine;

2. il preponderante interesse per le emozioni “negative”, che sono quelle massimamente da irregimentare;

3. la focalizzazione del discorso sui rapporti fra “emozioni” intese co­me fenomeni dotati di un’esistenza propria (allo stesso livello logico delle “azioni”) e “desideri” da un lato e “azioni e norme sociali” dall’al­tro. Gli esempi vengono usati per ricavare regole relative alle implica­zioni generali di queste “variabili” astrattamente intese fra loro;

4. la tendenza ad accontentarsi di resoconti descrittivi poveri di dettagli e isolati dal contesto, si assume che ognuno sappia “nel suo intimo” di cosa si parla quando si parla di “invidia”, “amore” “odio” ecc… e questo viene ritenuto sufficiente per andare avanti col discorso;

5 l’attenzione sui possibili sviluppi futuri degli esempi presi in esame in termini puramente analitici, logici, dove il concetto dì “cornici” come da noi delineato in precedenza semplicemente non è contemplato.

Nella retorica del controllo si presume una barriera fra il “dentro” e il “fuori”.

Le emozioni pur es­sendo inutilizzabili o almeno pericolose per comprendere il mondo che ci circonda e di cui siamo parte, possono servirci a capire un nostro “dentro”, inteso come uno scenario inaccessibile agli al­tri in cui recitano il loro dramma le passioni, i desideri, le abitudini e le motivazioni. Amore, odio, invidia, gelosia sono delle presenze biologico-universali sulle quali e con le quali possiamo ricamare, fantasticare, arricchire o impoverire la nostra vita psichica.

Una coscienza del sé biforcata, in cui una parte del sé deve controllare l’al­tra. Delle due parti, quella da controllare è vista come un io debole, ma pervasiva e quella che controlla come un io razionale e localizzato.

La retorica del controllo stabilisce una gerarchia molto netta fra lin­guaggio verbale inteso come strumento della mente e veicolo della ra­zionalità e le altre forme di comunicazione che sono viste come pura­mente sussidiarie. In particolare nega l’esistenza di un altro codice, di­verso da quello linguistico e tipico del linguaggio del corpo. Il corpo è visto come uno strumento, il tramite materiale per portarci a spasso e per mettere in atto i comportamenti e come il contenitore di impulsi universali che costituiscono le voci rozze ed elementari ma vitali ed espressive della natura.

Farsi prendere in contropiede, essere messi in imbarazzo non sono occasioni di nuova cono­scenza, ma pure e semplici sconfitte, segni di debolezza, umiliazioni. O si è così oppure “emotivi”, “intuitivi”, “sentimentali”, caratteristiche che si addicono più alle donne e in generale alle classi inferiori e ceti marginali, ai popoli primitivi.

 

Come ogni dicotomia anche quella ra­gione-emozioni prevede l’opzione per la teoria inversa. Come ha osser­vato Agnes Heller: “La rigida contrapposizione di sentimento e agire razionale può ovviamente anche significare la preferenza del primo, in tal caso viene classificato ‘fattore di disturbo’ non il sentimento, ma il pensiero razionale”.” Razionalismo e irrazionalismo, ragione e intuito, positivismo e romanticismo, sono i poli di una stessa visione, che si ri­producono e alimentano a vicenda. L’impianto rimane lo stesso: le due sfere, quella razionale e quella emotiva sono concepite come separate e antitetiche. Ognuno di noi a seconda delle circostanze e del “carattere” oscilla verso l’una o l’altra.

Questo è lo stereotipo che allora si afferma prepotentemente e che an­cora oggi connota l’atmosfera morale e intellettuale Euro-Americana. E il modo di connettersi a se stessi e al mondo che ho definito “guidato dall’ascolto passivo”, tutto interno alla dicotomia oggettivo-soggettivo.

______________________________________________________________________

Per l’autoconsapevolezza emozionale invece neppure il corpo è un ne­mico: sta attivando un modo, quello per lui più abituale, di reagire stante una certa lettura altrettanto abituale di una data situazione con­tingente. E un comportamento automatico analogo al guardare a sini­stra quando nell’Europa continentale attraversiamo la strada. E solo quando approdiamo in un Paese in cui si guida “dalla parte sbagliata della strada”, quando arriviamo a Londra, che possiamo renderci con­to di quanto quel nostro comportamento sia divenuto automatico e quanto sia difficile acquisire una nuova abitudine altrettanto automa­tica. Ad ogni incrocio dobbiamo stare all’erta per imporci di guardare dalla parte opposta a quella che ci verrebbe spontanea. Qui il codice analitico e linguistico hanno un ruolo importantissimo, ma questo ruolo non giustifica e non richiede che le emozioni siano ridotte né a “stati d’animo” né a “giudizi privi di premesse”. Le emozioni sono rivelatrici di danze abituali, difficili da smantellare. Ma per cambiare una danza che conosciamo in favore di un’altra che ancora non conoscia­mo, non bastano né le parole, né la razionalità.

Nel complesso, l’autoconsapevolezza emozionale ci invita a rapportar­ci al nostro corpo in un atteggiamento di ascolto e di dialogo e a consi­derare le emozioni espressioni di un’intelligenza più complessiva e di una mente di cui siamo parte attiva, ma che non risiede unicamente né principalmente nella nostra testa, né nelle nostre viscere.

Primi passi verso I’autoconsapevolezza emozionale. Marianella Sclavi a questo punto consiglia alcuni antidoti, i quali come si sa non fanno bene di per se stessi, ma solo in quanto si è stati avvelenati o si è in grave pericolo di esserlo.

Primo antidoto: prova a interpretare le tue emozioni non come cause di azioni future, ma come rivelatrici di azioni già in atto. Una parte delle comunicazioni sulle nostre e altrui emozioni, per fortuna, non si svol­gono “alla luce di un pensiero giudicante”, ma in una dimensione conversazionale, in un clima più rilassato, conviviale e amicale. La gran parte delle conversazioni “in amicizia” sulle emozioni specie fra donne si basano su racconti di quello che abbiamo fatto o “ci è successo” e ap­prodano a osservazioni sul “carattere” delle interlocutrici e interlocuto­ri. Quando sì parla del proprio o altrui carattere non si parla di “emo­zioni” in astratto, ma di tendenze a reagire in determinati modi da par­te di determinate persone in determinate circostanze. Ora, nel narrare un determinato episodio, una specifica esperienza, possiamo sia dire che siamo state “spìnte dalla gelosìa” a reagire in un certo modo, oppu­re notare che un moto di gelosia “ci ha reso consapevoli di come stavamo agendo”.

Secondo antidoto: considera le tue emozioni degli strumenti preziosi per guardare non dentro di te, ma fuori. Situazione di partenza: quando cerco di parlare in pubblico, mi confondo e balbetto. Retorica del con­trollo: è la paura che ti fa balbettare, convinciti che quella paura nel ca­so specifico è irrazionale e sarai a posto. Autoconsapevolezza emozio­nale: non è la paura che mi fa balbettare quando parlo in pubblico. La paura mi rende consapevole che in quella situazione mi sento sotto at­tacco e che il modo più consono di reagire a quel tipo di attacco che il mio corpo conosce è confondermi e balbettare. Naturalmente più mi confondo e balbetto e più “verifico” che ho proprio ragione a vedere quella situazione in quel modo e così via circolarmente. Il problema è aiutare (amorevolmente) il mio corpo a vedersi in quella situazione e a vederla anche in modi diversi. Una possibile strategia è proprio quella contraria a un atteggiamento di maggior controllo; in­vece di sforzarmi ansiosamente di non balbettare, posso cercare di usa­re questo mio “difetto” come una risorsa per accattivarmi le simpatie del pubblico e considerare miei interlocutori privilegiati proprio quelle persone che reagiscono in modo più simpatetico e che prima forse sva­lutavo interpretando il loro comportamento come “pietà” o  qualcosa di simile.

La Sclavi sottolinea quell’ “amorevolmente” messo fra parentesi. È un atteggiamento che esclude la colpa e che consente un dialogo di rispetto reciproco fra varie parti dell’io.  Il comportamento “automa­tico” del corpo va accolto e rispettato, ma non è l’unico possibile; biso­gna apprestarsi ad esplorare altri punti di vista, altri mondi e compor­tamenti possibili. L’attenzione va spostata dalla dicotomia emozio­ni/razionalità alla dicotomia comportamenti rigidi/comportamenti flessibili.

Ci vuole pazienza e un atteggiamento di osservazione sperimentale. Questo significa fra l’altro che si deve imparare a dare molta importan­za a dei particolari che si presentano alla nostra percezione come mar­ginali e fastidiosi perché accoglierli comporterebbe la messa in discus­sione del modo di inquadrare gli eventi che diamo per scontato. Dob­biamo sapere che molti dei comportamenti che dovremo adottare per acquisire un nuovo punto di vista, non possono inizialmente che ap­parirci “irrazionali”, “privi di senso”, l’opposto di quello che ci verreb­be spontaneo e/o che ci sembra giusto. Quando le emozioni sono no­stre alleate il_nemico non è l’irrazionalità ma la rigidità, il processo è probabilmente lungo e tortuoso, la soluzione non è data, né rintracciabile fin dall’inizio. Bisogna imparare a osservare la circolarita delle reazioni alle reazioni e renderci conto che non esistono de­gli interlocutori come entità separate e autonome dalle relazioni reciproche.

Il vantaggio è che così facendo non stiamo solo “superando la paura”, stiamo approfittando di questa situazione per diventare bravi osservatori.

Terzo antidoto: meno spontaneità, più immaginazione. La retorica del controllo si accompagna al mito della spontaneità, all’idea che il nostro “vero io” si manifesta nella spontaneità e che la ricchezza della nostra vita emotiva è proporzionale al nostro grado di spontaneità. In realtà molti grandi psicologi di questo secolo hanno sostenuto una cosa diversa: che una ricca vita emotiva dipende dalla immaginazione e che la spontaneità è un’immaginazione con le gambe corte.

Pensate, per fare un esempio, a una situazione di tensione, di conflitto. Le reazioni che vengono più “naturali”, più spontanee, sono le seguen­ti: non ti ascolta, non lo ascolti, rifiuta di riconoscere la legittimità del tuo punto di vista e tu del suo, contesta e contrasta quello che dici e anche a te i punti di accordo sembrano futili e marginali.

Di solito noi associamo la “spontaneità” con la possibilità di opporci all’interlocuto­re anche se questi è una persona autorevole, anche se questo comporta­mento viene giudicato illegittimo, disdicevole. Cioè la associamo con l’anticonformismo. Ma il problema è quanto lontano possiamo anda­re, affidandoci alla spontaneità e all’anticonformismo. “Spontaneamente” possiamo sia condividere i valori dominanti e muoverci sui binari condivisi; sia dare una valutazone divergente da quella dominante e uscire dai binari; infine possiamo provare uno spe­ciale e più profondo disagio che non trova sbocco né stando sui binari, né uscendo dagli stessi. Non ci soddisfano né i comportamenti confor­misti né quelli anticonformisti. E questa un’esigenza che la retorica del controllo non permette di identificare. E un’esigenza non risolvibile con “opinioni diverse” (opposte individualmente, ma non sistemica­mente), è un disagio che riguarda i presupposti impliciti condivisi e dati per scontati, le “cornici”. Dovremmo mettere in discussione qual­cosa che riguarda il “noi” e non “l’io”, qualcosa che al tempo stesso condividiamo con gli interlocutori e che cì turba. Soggettivamente possiamo arrivare ad avvertire questo specifico disa­gio, ma il movimento “di uscita” dalla cornice — come abbiamo visto trattando dell’ascolto attivo – non è affidabile alla spontaneità ed è co­sa diversa dall’anticonformismo. Nel gioco dei nove punti, l’anticonformismo mi porta non ad uscire dal quadrato, ma a sostenere contro il parere di tutti gli altri, che il punto da lasciare scoperto non è quello in alto a destra, ma quello al centro.

Una mossa fondamentale dell’immaginazione è il gioco dello spiazza­mento, sia nel dialogo con noi stessi che con l’interlocutore. L’immagi­nazione si nutre del gioco dello spiazzamento: a partire dal gioco di pa­role e dalla battuta di spirito fino alla grande composizione letteraria e all’invenzione scientifica. La gestione creativa dei conflitti e la nonvio­lenza ci insegnano che in situazioni di tensione bisogna né cedere né attaccare, ma disarmare l’altro e noi stessi con delle mosse spiazzanti.

 

Due piccoli esempi.

Verso uno che urla, ti offende. Vedilo come uno che non ce l’ha con te, non prenderla personalmente. Vedilo come uno che è immerso in un immaginario della situazione e di te che non capisci bene (la sponta­neità ci porta a dare per scontate le sue motivazioni e il suo immagina­rio…). Il suo sfogo è segno di debolezza, ma anche della sua “umanità”. Rilassati, pensa a quanto gli fa bene sfogare tutta quella acredine. Met­titi dalla sua parte; assumi l’atteggiamento di chi esclama: “Certo che anch’io se la vedessi così, reagirei in un modo simile!”; “Desidero capi­re meglio come vedi la situazione”. Con questo non attacchi, non cedi, ti metti dalla sua parte e lo spiazzi, lo sorprendi, lo aiuti a guardarsi an­che da un altro punto di vista. Questo è: coinvolgimento e distacco. Non o/o, ma e/e.

Verso le tue emozioni. Bisogno di riconoscimento, non sopporti la derisione e le smentite, tendenza a colpevolizzarti o a colpevolizzare, a chiuderti nel tuo guscio, in una torre di avorio, ecc… Allenati a insce­nare queste risposte con l’immaginazione in modo un po’ caricaturale, ricorda le reazioni tue e degli interlocutori in analoghe situazioni spe­cifiche, circostanziate. E poi chiediti a quale repertorio di risposte “spiazzanti” (per te e per l’altro) puoi attingere. Non essere seria, diver­titi. Gioca senza timore di essere innaturale e goffa.

Riprenditi l’imma­ginazione.

In sintesi, gli assunti dell’autoconsapevolezza emozionale sono l’opposto di quelli della retorica del controllo. Le emozioni sono fon­damentali per la conoscenza del mondo di cui facciamo parte, quelle che proviamo nella nostra vita quotidiana sono pienamente sociali e culturali, vanno regolate secondo logiche diverse dalla razionalità favo­rendo lo spiazzamento, la moltiplicazione dei punti di vista, l’accoglimento dei paradossi; tutte dinamiche, queste, che la retorica del con­trollo esclude perché le giudica prive dì senso.

06 – Coinvolgimento o distacco?

Lascia un commento