7 – Superare le incomprensioni

Dieci incontri per apprendere una nuova arte

Libera sintesi dal Libro di Marianella Sclavi

Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Pescara, Le vespe, 2000 (ristampato nel 2003 da Bruno Mondadori)

Settimo incontro

Superare le incomprensioni: una strategia in tre fasi

Commentiamo insieme due episodi di “scontro” di cornici interculturali. Vediamo come si superano i problemi di incomprensione, ben sapendo che ognuno di noi molto spesso applica istintivamente queste soluzioni nella sua vita normale quando si trova in conflitto con persone di mentalità diversa. Il nostro obiettivo è analizzare quale strategia si applica per applicarla consapevolmente in tutte le situazioni in cui sia necessario.

Primo racconto: L’auto sul marciapiede

Una signora italiana negli Stati Uniti si reca con il marito a fare una grande spesa in un su­permarket. Quando escono iI marito rimane a guardia del traboccante carrello mentre la moglie va a prendere l’automobile nel parcheggio. Giungendo con l’auto accanto al supermercato la signora si accorge che molti altri clienti con spese altrettanto voluminose hanno avuto la stessa idea. La coda arriva fin sulla strada dove sta già disturbando il normale fluire del traffico. C’è un bel po’ da attendere. II marito da se­gni di insofferenza. Ma ecco l’idea geniale: fra il supermarket e la stra­da cittadina che lo fiancheggia e sulla quale lei si trova quel momen­to, c’è un marciapiede ampio e deserto, inutilizzato, dotato di uno sca­lino basso, facilmente superabile. Non c’è alcun segnale di divieto né alcun poliziotto. Senza pensarci sopra due volte la signora porta l’auto sul marciapiede e fa cenno al marito di raggiungerla col carrello. Si sente fiera di se stessa. Ha individuato un modo pratico per togliersi di torno il più rapidamente possibile da un luogo troppo affollato. Ma ecco che improvvisamente tre anziane signore con dei pacchetti e l’espressione alterata le si avvicinano dandole della pazza e intimando­le di spostare immediatamente la macchina.

La signora italiana è stu­pefatta e profondamente risentita. La scena è talmente fuori da qual-siasi sua possibile aspettativa che l’unica cosa a cui riesce a ricollegarla è un incubo infantile. Le tre anziane signore così ossute, col volto ru­goso colorato da vivaci belletti le fanno venire in mente quei burattini che compaiono di colpo da dietro le scene per spaventare i bambini.

Il marito da lontano le fa segno di lasciar perdere, di portare via l’au­to.

Ma la signora italiana non ne ha alcuna intenzione. Ma come, lei ha trovato una soluzione inoffensiva a un problema individuale e so­ciale e la gente invece che approvarla la tratta in quel modo? Con quale diritto, con quale autorità? Le tre anziane signore, sempre più agitate, adesso addirittura coinvolgono altri clienti del supermarket come testimoni partecipi della loro indignazione. Arriva anche un poliziotto con gli occhi fuori della testa il quale le ingiunge di seguirlo al posto di polizia.

La signora italiana a questo punto capisce che qualcosa non va e cambia strategia.

Spiega al poliziotto di essere un’italiana, appena arrivata da Roma, città dove parcheggiare la macchina sui marciapiedi è un uso comune. Aggiunge che si rende conto di aver sbagliato e che le dispia­ce. Fra la piccola folla qualcuno dice che è vero, ìn Italia le cose funzio­nano proprio così; la gente adesso la osserva con espressioni fra il bo­nario e il divertito. Le tre signore e il poliziotto hanno un’aria sconcer­tata, non sanno più bene cosa fare. Infine, scuotendo la testa con suffi­cienza e compatimento, la lasciano andare.

Più tardi, tornata a casa e sbollito lo shock e il risentimento, la signora italiana racconta ai figli questo incidente e insieme ne ridono a lungo. Era infatti chiaro che cosi come le tre signore le erano sembrate delle streghe, lei a loro doveva essere parsa “una perfetta troglodita”. Insie­me devono riconoscere che le tre signore americane erano state la personificazione di una concezione della democrazia e della società nella quale i cittadini in quanto tali si ritengono attivamente respon­sabili di far rispettare le norme della convivenza civile.

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Analisi dell’episodio

Gestione umoristica delle emozioni e teoria della conoscenza.

Tre fasi che si succedono nel tempo:

1. la signora vede le cose “a modo suo”

La signora interpreta le proprie emozioni come informazioni relati­ve all’ambiente e alle persone che entrano nella scena. Il proprio risen­timento la informa che le tre signore sono delle rompiscatole, la pro­pria sorpresa che il loro comportamento è abnorme, ecc… In altre pa­role la signora italiana interpreta le emozioni proprie e altrui secondo una mentalità che le è consueta perché appartenente alla sua cultura.

2. La signora vede le stesse cose secondo due matrici percettive-valutative oppo­ste.

Un accumularsi di piccoli segnali fastidiosi (per es: il grado di sicu­rezza in se stesse delle tre signore, la naturalezza con la quale altri si av­vicinano e le appoggiano, gli occhi fuori della testa del poliziotto…) e specialmente il senso di allarme per il rischio di essere portata al posto di polizia, nonché un certo allenamento nell’arte di ascoltare/osserva­re, chiamano in causa l’esistenza di due opposte matrici percettivo-valutative (bisociazione). Questi piccoli segnali che in precedenza erano stati trascurati, lasciati sullo sfondo, adesso diventano importanti e vengono interpretati correttamente come rivelatori di una diversa e opposta matrice percettivo-valutativa.

Contemporaneamente permane anche la vecchia visione delle cose. Siamo allo stadio “Hanno ragione entrambi i litiganti” del giudice saggio. La signora si sente presa in trappola, umiliata, ha uno smarrimento di identità

3. esce da questa trappola rendendosi conto delle difficoltà di  far convivere due diverse mentalità, superando tale difficoltà scendendo a un compromesso (lei non mette la macchina sul marciapiede, le signore la lasciano andare), alla fine ci ride sopra vedendo la questione da un punto di vista più alto e meno coinvolgente emotivamente.

Il succederei di queste tre fasi corrisponde all’abbandono di un modo di vedere centrato sulla propria educazione per attingere a un’altra fonte di educazione, che può essere accettata o non accettata, ma della cui esistenza bisogna tener conto e trarne profitto nelle relazioni interpersonali.

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Occorre trarne il seguente insegnamento:

1) Alle “stesse cose o azioni” (“auto sul marciapiede”) possono essere attribuiti significati opposti e ugualmente veri.

2) II processo di percezione è gestaltìco e quindi implica sempre criteri di valutazione. (Per la signora italiana “marciapiede” è uno spazio ‘ per camminare, per parcheggiare, dove il cane può fare i suoi bisogni,  ecc.; lo stesso spazio viene percepito dalle signore americane della scenetta in modo molto diverso.) Percezione e valutazione appaiono come inscindibili solo per chi rimane bloccato nella fase 1, quella della massima ingenuità interpretativa.

3) Nella vita quotidiana tendenzialmente ci rimoviamo come se ci trovassimo nella fase 1, cioè dando per scontate le matrici percettivo-valutative e le premesse implicite in base alle quali agiamo. Ma non ce ne rendiamo conto, perché tutto ci pare naturale, e il problema non si pone se non ci sono scontri interpersonali.

4) L’unico modo per risalire al sistema di premesse implicite in base al quale l’organismo opera è metterlo in condizione di sbagliare”(fase 2)

5) La capacità di cambiare i sistemi di autocorrezione è il modo princi­pale in cui si manifesta l’intelligenza (“deuteroapprendimento”). Que­sto cambiamento corrisponde al passaggio dalla fase 2 alla fase 3, pas­saggio che implicando dei paradossi e un approccio umoristico viene impedito da un modo di procedere logico, mentre è favorito da un modo di pensare intuitivo.

 

Ma quali sono le premesse implicite alla base di tutto l’episodio?

Per risalire alle premesse implicite occorre analizzare le emozioni e il sentimenti.

Evento 1: la signora decide di parcheggiare sul marciapiede. Sa che se arriva un vigile potrebbe prendere una multa, ma non lo ritiene molto probabile. Emozione: “è fiera di se stessa”, si attende complicità. Pre­messa che rende ovvio questo sentimento: “Aggirare le regole a fin di bene è normale, è lecito”.

Evento 2: le tre anziane signore la aggrediscono indignate. Emozione: sorpresa, sbalordimento. Premessa: i concittadini devono badare ai fat­ti loro. Sono degli “estranei”.

Evento 3: le tre signore non si limitano a protestare, pretendono di dir­le quel che deve fare. Emozione: risentimento, ribellione. La signora italiana vede questo come uno sgarbo personale, si sente trattata come un bambino. Premessa: le uniche figure che hanno l’autorità di far ri­spettare le regole di convivenza civile sono i genitori e i rappresentanti dello Stato. Infatti:

Evento 4: quando arriva il poliziotto, la signora reagisce con allarme e rassegnazione, giustificata dalla premessa che l’autorità statale agisce secondo una logica diversa da quella dei cittadini i quali se colti in fla­grante la devono subire.

Le quattro premesse (o regole date per scontate) dell’azione cosi indivi­duate vanno viste come un complesso unico, non sono isolabili.

Tali premesse nel loro insieme consentono di mettere in luce il clima intellettuale e morale di un certo ambiente, non di prevedere il comportamento dei singoli. La batteria di quattro premesse così costruita è “un complesso algoritmo”, frutto di un processo di immaginazione sociologica.

“Anche a Roma” un passante indignato può protestare contro m’auto parcheggiata sul marciapiede, ma questa protesta avrà  una dinamica diversa.

Difficilmente gli altri passanti si fermeranno a spalleggiarlo e se lo faranno questo sarà ricordato come un episodio eccezionale, strano. Ma proprio la rarità nel nostro Paese del tipo di “leadership da marciapiede” che ho descritto (un cittadino protesta : gli altri lo spalleggiano efficacemente e civilmente, senza risse) ha un rìflesso interessante sul diverso grado di consapevolezza delle quattro premesse.

Se si chiede a italiani che ascoltano di fare degli esempi circostanziati tratti dalla loro esperienza di ognuna di queste regole, di solito

sulla prima “aggirare le regole a fin di bene” gli esempi sulla scorta del mio sono relativamente rapidi e numerosi;

sulla seconda “fatevi i fatti vostri” è molto più difficile trovare casi specifici;

la terza “solo i genitori o o stato possono intervenire” silenzio completo, non c’è scelta, chi al­tro?;

la quarta “lo stato è potere-altro” è di nuovo ricca dì esempi di multe per guida veloce, senza casco, contromano, parcheggio ecc…

Il motivo di queste differenze forse è che ci vuole un certo ingegno, in attivarci, sia per aggirare le regole evitando di essere colti in fallo sia di gestire la punizione se ci va male. Invece le regole centrali che configurano una mentalità familio-statocentrica sono regole alle quali di solito ci adeguiamo passivamente e automaticamente, quasi senza rendercene conto.

Se si chiede: “Cosa vi aspettate se andate da una persona che ha parcheggiato in doppia fila a dirgli di spostare la macchina per­ché è un comportamento vietato?”. Molti rispondono: “Una coltellata”. Lo dicono sogghignando, cionondimeno è la risposta che per prima viene loro in mente.

 

Secondo racconto: Le disavventure di un antropologo in Giappone

Questo racconto si presta bene a illustrare le dinamiche dell’attesa-intesa e del distacco-coinvolgimento nella comprensione intercul­turale.

Lo scopo ultimo però è più generale: mettere in luce un modello che illustra le più generali dinamiche dell’autoconsapevozza emozionale e dell’apprendimento reciproco in ogni comunica­zione che ha i caratteri della complessità.

“Ero da una decina di giorni a Tokyo, ospite di un hotel frequentato prevalentemente da giapponesi.

Un pomeriggio rimettendo piede nella mia stanza avverto che c’è qualcosa di strano, qualcosa che non va. Gli oggetti sul letto, sulla tavola, non erano i miei; erano presumibilmente di un ospite giapponese.

Il primo pensiero è stato: “Ho sbagliato camera! E se adesso arriva il legittimo proprietario e mi sorprende qui? Come spiego la mia presenza?”

Allora non sapevo che poche parole di giapponese. Controllo di nuovo le chiavi: il numero della stanza era quello giusto. Evidenteniente l’avevano data a qualcun altro, senza avvisarmi! E tutta la mia bian­cheria, i miei appunti, i miei bagagli… Dove li avranno portati? Ero in uno stato di confusione, di sgomento e irritazione. Ormai mi ero siste­mato in quella stanza, ci stavo bene. Come gli era saltato in mente… Riprendo l’ascensore e ritorno alla reception. L’impiegato con atteggia­mento molto ossequioso (e imbarazzato?) mi informa che sì, in effetti mi avevano assegnato una nuova stanza perché la mia era stata riservata in precedenza da un altro cliente. Non dico nulla, ma penso: “Lo sapevano che mi sarei fermato per circa un mese! Perché trattarmi come una spe­cie di tappabuchi?”.

Mi vengono consegnate le chiavi della nuova stanza. Entro e trovo che tutti i miei effetti personali erano già distribuiti ordinatamente nei cassetti e sugli scaffali quasi come se li avessi messi io stesso. Ho avuto uno smarri­mento, una sensazione di crisi di identità. Come era possibile che qualcun altro avesse disposto tutti quegli oggetti piccoli e grandi esat­tamente secondo le mie abitudini?

Tre giorni più tardi di nuovo mi cambiarono stanza e poi ancora. Già la seconda volta lo shock era sparito, sapevo di cosa si trattava, anche se quel comportamento mi risultava incomprensibile. Avevo deciso di reagire almeno esteriormente come se si trattasse di una prassi norma­le. Anzi, ogni volta che ritornavo in albergo per prima cosa mi infor­mavo se ero ancora nella stessa stanza.

In precedenza avevo soggiornato al Frank Lloyd Wright Imperial Ho­tel per parecchie settimane e niente del genere era accaduto né a me né ad altri. Come mai? Cos’era? Ero vittima di una forma di discri­minazione verso gli stranieri? Non volevo arrivare a conclusioni af­frettate, che tuttavìa sarebbero state più che legìttime nel mio Paese di orìgine.

Come se non bastasse, qualche mese più tardi ero a Kyoto con alcuni amici e alloggiavamo in una deliziosa piccola locanda su una collina con vista sull’intera città. Una sera rientrando vediamo il direttore ve­nirci incontro con grande sollecitudine e con aria molto imbarazzata. Capisco al volo.

“Dovete cambiarci stanza. Benissimo, non preoccupatevi, compren­diamo perfettamente. Mostrateci le nuove stanze, per noi va benissi­mo.” Ma in quel caso l’interprete ci spiegò che non dovevamo cambiare solo ma anche albergo.

La mia disinvoltura cominciava a tentennare.   Un trambusto del genere senza nemmeno avvertirci?

Il piccolo taxi nel quale ci avevano stipati si avvia verso il centro e si inoltra in stradine sempre più piccole e affollate, con sempre meno europei in giro. Ci deposita in un alberghetto di classe chiaramente inferiore a quello di provenienza, nel quale eravamo gli unici ospiti occidentali.

A questo punto stavo diventando davvero un pò paranoico, sapevo che è un sentimento al quale è facile aggrapparsi in terre straniere, ma lo stavo diventando ugualmente.

“Devono pensare che siamo proprio dei poveracci, di uno status socia­le infimo, per permettersi di trattarci in questo modo!”

Il giorno dopo scoprimmo che il nuovo quartiere era molto più auten­tico e interessante di quelli visitati in precedenza, lo percorremmo a fondo e a parte alcune difficoltà legate alla lingua, riuscimmo a cavar­cela egregiamente e con grande soddisfazione.

Tuttavia questa faccenda di essere presi e spostati come una valigia continuava ad assillarmi. Pur essendo un osservatore di modelli cultu­rali, non avevo la più pallida idea su come intepretare questi compor­tamenti.

La risposta finalmente la trovai grazie ad amici giapponesi i quali erano stupiti anch’essi del trattamento riservatomi, ma per la ra­gione opposta alla mia. In realtà mi era stato fatto un grande onore in quanto “ero stato trattato come un membro della famiglia”.

Quando uno viene visto come parte della famiglia, con lui ci si può permettere di essere “informali, rilassati e privi di cerimoniosità”. In Giappone una persona o “appartiene” o non ha alcuna vera identità. Questo vale sia per l’azienda in cui lavora sia per l’hotel in cui soggior­na. L’ospite di un hotel – mi spiegarono gli amici giapponesi – dal mo­mento della registrazione diviene “membro di un’ampia famiglia mo­bile” il che per esempio da il diritto-dovere di salutare gli altri ospiti dell’ albergo con un certo calore anche se si incontrano per strada {infatti era successo e mi ero chiesto se per caso sapessero chi ero…), inoltre l’appartenenza comporta dei diritti di anzianità per cui ogni volta che ritorni hai un maggior diritto a prenotare anche con mesi di anticipo la stessa stanza che occupavi in precedenza. Questo fa sì che i “nuovi ospiti siano effettivamente dei “tappabuchi”, ma è il far parte della stessa famiglia che conta, non in quale camera dormi o quanto è grande.

Nuralmente gli hotel più turistici adottano un diverso comportamento perché hanno constatato che gli americani diventano ansiosi, si irritano, “non hanno alcun desiderio di far parte della famiglia”.

Invece, nel mio caso, i gestori dovevano aver in qualche modo capito che “desideravo appartenere” e a questo desiderio avevano corrisposto, accogliendomi.

Questo racconto è rappresentabile con il seguente grafico.

MAPPA BISOCIATIVA: “HOTEL, CAMBIO DI STANZA” USA/GIAPPONE

Premesse implicite
USA                                                  Giappone

Negli Stati Uniti spostare qualcuno senza neppure avvisarlo è peggio di un insulto, significa che vale meno che niente, che è sotto il livello in cui i sentimenti altrui vengono tenuti in qualche considerazione.

Inoltre di solito gli spostamenti sono visti come segnali di mutamenti di status e il passare da una stanza più grande a una più piccola è un chiaro segno di caduta di prestigio e probabilmente anche di busta pa­ga.

Lo spazio che uno occupa è un importante simbolo dello status sociale.

Non è cosi in Inghilterra, dove lo status è interiorizzato e viene comu­nicato tramite l’accento, il portamento, il titolo. Una persona impor­tantissima può lavorare in una stanza piccolissima senza sentirsi affatto diminuita. I parlamentari inglesi non hanno dei veri e propri uffici, condividono degli spazi comuni. In America no, lo status è esternalizzato. Gli inglesi tendono a irridere l’importanza che gli americani asse­gnano agli spazi che occupano. Lo considerano un tipico comporta­mento “da parvenu*”, un segnale di mancanza di radici e scarso senso di sé.

Le emozioni di Hall nel vedersi estromesso dalla sua stanza a Tokyo erano state quelle tipiche “di un americano” e anche se non aveva rea­gito come avrebbe fatto in America, una voce (quella che lui chiama parte culturale della mia mente”…) continuava a ripetergli: “Poche storie, qui ti stanno trattando come una scarpa vecchia!”. storie.

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In questa storia si possono evidenziare due punti. Il primo riguarda la natura della narrazione di Hall e il ruolo che in questa narrazione hanno gli “incidenti di percorso”.

A questo fine ricorreremo a “il gioco delle narrazioni parallele”.

Il secondo punto riguarda il ruolo delle emozioni, le dinamiche del coinvolgimento e distacco e il loro collegamento con quelle dell’attesa e intesa.

Il gioco delle narrazioni parallele.

Il gioco consiste nel produrre una serie di narrazioni di situazioni di malinteso interculturale cosi caratte­rizzate:

1. narrazioni nelle quali si afferma la pari legittimità di entram­be le matrici percettive-valutative;

2. narrazioni in cui si afferma una sola matrice negando la legittimità o addirittura l’esistenza dell’altra;

3. narrazioni in cui vengono esposti “i fatti” prescindendo completa­mente dalle matrici percettivo-valutative.

Quella di Edward Hall sopra riportata è una narrazione del primo ti­po.

In essa viene affermata progressivamente la pari legittimità di en­trambe le matrici percettivo-valutative, quella del cliente occidentale dell’hotel e quella dei suoi gestori giapponesi. Invece di rimuovere l’in­cidente che gli è capitato in nome del fatto che è stato imbarazzante “essere trattato come una scarpa vecchia”, Hall lo mette al centro del­l’attenzione usandolo come un’occasione per l’esplorazione di altri mondi possibili, come una risorsa conoscitiva.

Una versione “del secondo tipo” potrebbe essere la seguente:

Negli hotel giapponesi hanno un strano modo di trattare i clienti. Ti cambiano stanza ogni tre giorni senza neppure avvisarti. E lo fanno come se fosse una cosa normale. O non si rendono conto di essere insul­tanti o fanno finta di non accorgersene. Solo negli hotel internazionali conoscono le buone maniere”.

Questa formulazione ha il vantaggio di essere incomparabilmente più sintetica e, in un mondo dominato dalla frenesia di “venire subito al punto” e dal “disprezzo per la contingenza”, questo è molto apprezzato, tuttavia trasmette non un’esperienza di apprendimento di nuove cornici, dì nuovi modi di inquadrare gli eventi (deuteroapprendimento), ma solo un’informazione che dando per scontate le matrici percet­tivo-valutative di appartenenza riguarda il comportamento dei giappo­nesi: sbagliano. Un’unica matrice percettive-valutativa valida. In ter­mini del gioco dei nove punti, potremmo dire: rimane prigioniero del quadrato, legato alle mosse del Cambiamento 1.

In questo tipo di resoconto il protagonista ammette di essere stato vit­tima di un incidente imbarazzante, ma non è questo il centro del rac­conto, il centro è cosa è vero e cosa è falso, chi ha ragione e chi ha tor­to. C’è questa urgenza a rassicurarsi e rassicurare.

Una versione “del terzo tipo” potrebbe essere: “Negli hotel giapponesi ti cambiano dì stanza senza avvertirti, in com­penso pensano loro non solo a trasferire i bagagli, ma anche a riporli nei cassetti e nel bagno esattamente come li metteresti tu”.

Anche qui non viene trasmessa un’esperienza, ma si sta ben attenti a dare delle informazioni evitando “i giudizi di valore”. Per dimostrare la propria “neutralità” si fa attenzione a equilibrare aspetti negativi e po­sitivi, valutazione che rimane implicita: ci si attiene “ai fatti”. Nessuna matrice percettivo-valutativa.

Da questo resoconto ricaviamo delle informazioni che possiamo giu­dicare più o meno utili, ma non c’è traccia di come chi parla è arriva­to a possederle, né sul diverso significato che “fatti” del genere posso­no avere in situazioni concrete e contingenti per persone di culture diverse.

Quando ci limitiamo a “raccontare i fatti” facciamo dei giochi di pre­stigio favolosi, anche se non ce ne rendiamo conto. Facciamo scompa­rire ogni traccia delle matrici percettive-valutative.

Dunque, abbiamo queste tre versioni dello stesso evento nelle quali gli “incidenti di percorso” (l’imbarazzo, lo spiazzamento, il senso del ridi­colo, il conflitto) vengono valorizzati nella prima, edulcorati nella se­conda e totalmente ignorati nella terza.

Da un punto di vista grafico, sulla base dì quelle che ho chiama­to nelle tavole sinottiche “Le due abitudini di pensiero” e “Ascolto passivo, ascolto’attivo”, queste tre narrazioni possono essere rappre­sentate come nella figura.

La prima versione corrisponde al modo di narrare di chi pratica l’ascol­to attivo. La seconda riflette l’etnocentrismo del senso comune. La ter­za è quella a cui tendono le scienze sociali di impostazione positivista preoccupate di evitare le distorsioni dei giudizi di valore eliminandoli, assieme alle cornici e alle emozioni.

Due matrici bisocìate

Imbarazzo valorizzato   Mondi possibili    Ascolto attivo

Una matrice valida

Imbarazzo edulcorato   Giudizi  di valore   Ascolto passivo

Nessuna matrice.  Imbarazzo rimosso. Neutralità

Due (o più) matrici, una sola matrice, nessuna matrice. Una progressi­va riduzione delle matrici percettivo-valutative, che noi invece riteniamo fondamentali per la comprensione di quell’evento.

Il ruolo cognitivo delle emozioni.

Passiamo ora al secondo punto, al distacco e coinvolgimento, cioè al ruolo cognitivo delle emozioni. Prima di tutto vi chiedo di passare in rassegna le emozioni che percor­rono il racconto di Hall. Sono una quantità notevole. Se è vero che le emozioni distorcono la conoscenza, dovremmo avere un resoconto completamente distorto. Invece a noi non sembra che sia così distorto, ci sembra che le emozioni interpretate in questo modo siano fondamentali per capire.

Nella seconda versione le emozioni distorcono la conoscenza, la ren­dono unilaterale, ma nella prima versione no. Come mai? La seconda versione non consente coinvolgimento e distacco, ma o distacco o coinvolgimento. Una narrazione del genere è il fondamento della di­cotomia soggettivo-oggettivo.

Sconcerto e sgomento, spiazzamento e senso del grottesco. Hall inter­preta questi sentimenti ed emozioni non come informazioni su cosa succede, ma su come lui, americano, vede e reagisce a (“interpreta”) una situazione del genere. Né rinuncia al proprio punto di vista, né lo assume come l’unico possibile. Questo è il fondamento del coinvolgi­mento e distacco. Si prepara a uscire dal quadrato.

Assume l’atteggiamento del giudice saggio. Ha ragione lui, avran­no ragione gli altri (se mai riuscirà a capire il loro punto di vista) e non possono aver ragione entrambi. Attesa e intesa. “Attesa” di ulteriori in­dizi che gli consentano di capire come quelle stesse circostanze possono essere interpretate in modo diverso, “intesa” perché i migliori collabora­tori in questa indagine sono proprio quelli che nella sua cultura consi­dererebbe come “nemici” e anche perché tutta questa ricerca è volta ver­so l’intesa, verso un futuro apprendimento reciproco. È questo ìl signi­ficato dinamico di quel particolare sentimento che chiamiamo “fidu­cia”.

Non la previsione che le proprie aspettative verranno corrisposte, ma un modo di connettersi esplorativo guidato dall’ascolto attivo. Vedete come può essere illuminante, come ci permette di andare più a fondo, di non rimanere bloccati in superficie, l’esperienza interculturale elaborata con l’indagine variazionale.

Il linguaggio del corpo

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