10 – La gestione creativa dei conflitti

Dieci incontri per apprendere una nuova arte

Libera sintesi dal Libro di Marianella Sclavi

Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Pescara, Le vespe, 2000 (ristampato nel 2003 da Bruno Mondadori)

Né attaccare, né subire

I MANUALI DI GESTIONE CREATIVA DEI CONFLITTI, RIVISITATI (L’INTERFACCIA FRA PENSIERO SEMPLICE E PENSIERO COMPLESSO)

Nel 1981 esce negli Stati Uniti il libro di Roger Fisher e William Ury (ti­tolo italiano: L’arte del negoziato) che diventa rapidamente “il testo” fondativo e divulgativo della negoziazione creativa come campo di stu­di a sé. Fisher e Ury erano allora due professori della Harvard Law School, studiosi di diritto internazionale e antropologia e fondatori di un programma di ricerca di questa Università inteso a elaborare una teoria della negoziazione e mediazione dei conflitti a partire dall’individuazione delle dinamiche messe in atto in casi di successo. Il programma si impernia su attività di ricerca, di consulenza e di formazione. Nel 1978 Fisher e Ury erano divenuti con­sulenti del Presidente Jimmy Carter e in questa veste seguirono le trat­tative che portarono all’accordo di Camp David del 1979 fra Israele ed Egitto, accordo che diede grande prestigio internazionale al “Harvard Negotiation Project”.

Metti a fuoco gli interessi, non le posizioni. I due slogan centrali di questo approccio sono: “Metti a fuoco gli interessi e non le posizioni” e “Separa le persone dal problema”.

Vediamo subito alcuni degli esem­pi portati dagli autori per illustrare il primo.

Primo esempio: le finestre.

Due persone in una biblioteca pubblica litigano perché una vuole te­nere la finestra spalancata e l’altra la vuole chiusa. Il primo si offre di lasciarla socchiusa, all’altro non va bene, ecc… La bibliotecaria inter­viene e chiede al primo perché vuole la finestra aperta. Risposta: “Ho bisogno di aria fresca”. Chiede al secondo perché la vuole chiusa: “Per evitare la corrente che mi fa venire i reumatismi”. La bibliotecaria ci pensa un po’ e poi va a spalancare la finestra della stanza accanto: cosi nella stanza ci sarà aria fresca senza corrente. La posizione è, ciò che le parti hanno deciso di rivendicare, gli interessi sono ciò che le ha portate a prendere quella posizione. Per il negoziato­re creativo il problema è passare dalle posizioni agli interessi. Due commenti. Primo: non è credibile che i due litiganti non si fosse­ro già in precedenza comunicati i motivi delle loro posizioni contrap­poste. L’innovazione della bibliotecaria consiste nell’assumere, come il “giudice saggio”, che entrambi “hanno ragione” e nel cercare una solu­zione a partire da questo assunto, che i litiganti escludevano. Quindi: è riduttivo presentare questa dinamica come un passaggio dalle posizio­ni agli interessi, sono in opera le dinamiche dell’ascolto attivo. Secon­do: la cosa che ci aspetteremmo da una bibliotecaria quando due clien­ti litigano è che si limiti a imporre il silenzio. Cioè che legga quella si­tuazione alla luce di una regola già presente e di cui è responsabile. An­che questo, come l’atteggiamento reciproco dei due litiganti, è ascolto passivo. È riduzione sistematica della complessità ed è il modo “nor­male” in cui operano le istituzioni.

Secondo esempio: l’accordo di pace di Camp David del 1979. Israele aveva occupato i territori del Sinai dal 1967 (guerra dei sei gior­ni). Nel 1978 per iniziativa di Jimmy Carter, iniziano gli incontri nella residenza presidenziale di Camp David, nel Maryland, fra i rappresen­tanti di Israele (Pres. Begin) e dell’Egitto (Pres. Sadat).

Da notare che numerosi “nuovi pionieri urbani”, cioè gli attivisti e operatori di base del risa­namento urbano, avevano seguito o avevano intenzione di seguire qualche corso di ge­stione creativa dei conflitti. E in questa occasione che io stessa ho incominciato a oc­cuparmene.


Posizioni. Israele: disposti a restituire solo parte del territorio occupa­to. Egitto: restituzione dell’intero territorio nazionale. Discussione sulle posizioni: si propongono vari tracciati dei nuovi confini. Tutti ri­fiutati.

Interessi. Israele: sicurezza. Egitto: sovranità.

Accordo: l’intera parte occupata del Sinai restituita all’Egitto, ma di­chiarata zona smilitarizzata. Ovunque bandiere egiziane, ma nessun carro armato.

Commento. Una critica rivolta spesso a Fisher e Ury è che non sottoli­neano l’importanza dei cambiamenti di potere che rendono possibile la disponibilità delle parti all’accordo. È vero che in questo libro que­sto aspetto viene trascurato, tuttavia va anche detto che i rapporti di potere pur fondamentali, di per se stessi, non hanno mai portato a so­luzioni creative. La differenza fra il potere che opera attraverso l’ascol­to passivo e quello che si accompagna all’ascolto attivo, mi sembra fondamentale. Ma ridiamo la parola ai due autori.

Le domande generali per identificare gli interessi sono:

a) Quali sono i bisogni, le speranze, i timori, i desideri che quella po­sizione soddisfa?

b) Come percepiscono le posizioni e rivendicazioni dell’altra parte? Come mai le rifiutano; cosa impedisce loro di accettarle?

c) In che modo sono coinvolti gli interessi umani basilari e cioè: sicu­rezza — benessere economico — senso di appartenenza — riconoscimen­to sociale – controllo sulla propria vita?

Commento. Un aspetto che Fisher e Ury non sottolineano è che per ri­spondere a queste domande, tutte indispensabili, bisogna lasciare il ta­volo delle trattative e allargare il campo: recarsi a osservare/ascoltare con un atteggiamento esplorativo, di indagine variazionale, le situazio­ni contingenti e concrete e parlare con le persone concrete coinvolte in quelle situazioni. Altrimenti si rischia di passare da posizioni stereoti­pate a interessi stereotipati. Un libro che esemplifica con grande effica­cia questa esigenza è il banchiere dei poveri, di Muhammad Yunus. L’autore è l’inventore del microcredito e fondatore della Banca Grameen che presta denaro solo ai più poveri tra i poveri, ottenendo una restituzione di debiti superiore a quella di tutte le altre banche più tra­dizionali. Il testo illustra con grande efficacia la differenza fra ascolto attivo degli abitanti dei villaggi e ascolto passivo che è quello che met­tono in atto le banche tradizionali.

Ora se, per rimanere su questo tema, al tavolo delle trattative si discutono i problemi degli aiuti econo­mici ai Paesi più poveri, ma gli interlocutori sono solo quelli ufficiali i quali non sanno ascoltare chi è diverso da loro, non credo si possa dire di essere passati dalle posizioni agli interessi.

Continuiamo. Risalire dalle posizioni agli interessi conviene perché:

a) Per ogni interesse ci sono di solito una quantità di posizioni possi­bili. (Spesso la meno ovvia è quella più efficace.)

b) Dietro le posizioni ci sono sempre anche interessi alla conciliazione e non solo interessi contrastanti.

Tendiamo ad assumere che poiché le posizioni sono opposte, anche gli interessi dai quali derivano siano opposti. Ma non è così. Passare dalla posizione agli interessi sovrastanti permette di sottolineare la forza de­gli interessi condivisi e compatibili, oltre che di quelli opposti.

Terzo esempio: l’affitto.

Posizioni: il padrone di casa vuole alzare l’affitto, l’inquilino pensa che sia già abbastanza alto. Interessi comuni: 1. Stabilità: il padrone vuole un inquilino fisso, l’inquilino non vuole cambiar casa spesso. 2. Un appartamento ben tenuto, accresce il valore della casa; ci si vive me­glio. 3. Un buon rapporto umano: un inquilino che paga regolarmen­te, un padrone che fa regolarmente le riparazioni sollecitate. Commento. Qui sono d’accordo con Fisher e Ury contro gli economi­cismi di destra e di sinistra. L’idea di un’umanità disposta a calpestare i rapporti umani pur di perseguire gli interessi economici immediati è una tipica generalizzazione di chi essendosi allenato unicamente all’a­scolto passivo, non sa vedere altro e tratta come irritanti e marginali tutte le numerosissime storie e soluzioni che, per nostra fortuna, non rientrano in quel quadr°- Il difetto di questi ragionamenti non è adde-bitabile alla “natura umana”, ma a una interpretazione riduzionista e di­storta.

Vantaggi e limiti della negoziazione “posizionale”.

Se le parti in causa di solito si attestano su delle posizioni e rivendicazioni e non si avven­turano a esplorare gli interessi che stanno a monte, questo comporta­mento avrà le sue buone ragioni. Si possono enucleare tre ordini di ra­gioni.

La prima è che un approccio posizionale è efficace nelle situazioni rela­tivamente semplici. Infatti: a) permette di comunicare con facilità cosa si vuole; b) di avere un’ancora a cui aggrapparsi in situazioni di incer­tezza e sotto pressione; e) può produrre accordi accettabili. Come quando un negoziante chiede mille per un certo prodotto, noi offriamo duecento e dopo un po’ di tira e molla, ci accordiamo su cinque­cento o seicento. Oppure come quando marito e moglie, dopo un liti­gio su chi deve prendersi cura dei figli, si accordano che l’uno porta i bambini a scuola e l’altra li va a prendere.

La seconda ragione è che più si va avanti con un approccio posizionale e più diventa difficile cambiarlo. Infatti più le parti concentrano la propria attenzione a chiarificare le proprie posizioni e difenderle dagli attacchi e più il loro ego si identifica con la posizione di partenza e si consolida un nuovo interesse: “salvare la faccia”.

Il problema principale della negoziazione diviene un problema di coerenza rispetto alle posizioni, rivendicazioni, opinioni di partenza e l’intero rapporto viene vi­sto come una situazione in cui vince chi cede di meno. I negoziatori posizionali si fronteggiano specularmente in un atteggiamento difensi­vo-offensivo, incentrato sul “Io ho ragione, tu hai torto”, che rende le trattative lunghe e faticose, dense di risentimento e di sospetti. Ognu­no si muove con i piedi di piombo e la relazione è un continuo braccio di ferro. Nel caso che le parti siano molte (per es: ONU o schieramenti dentro un partito politico o nel parlamento o in un comitato di quar­tiere) la negoziazione posizionale produce e cristallizza schieramenti e coalizioni strumentali, improvvisate e superficiali. Quindi la negozia­zione posizionale produce essa stessa delle buone ragioni per continua­re su quella strada; per (diremmo noi…) non “uscire dal quadrato”. Al­la fine ci sarà una parte che può presentarsi come quella più forte e un’altra più debole, uno che si è comportato da duro e l’altro da mite. Si valuterà l’accordo in termini di vincitori e vinti.

Infine, la terza ragione, collegata alla seconda, è che per uscirne biso­gna adottare tutta una serie di comportamenti “controintuitivi”, fare “il contrario di ciò che verrebbe spontaneo”. Si tratta (diremmo noi) di uscire da premesse implicite date per scontate e nelle quali è fortissima la tentazione di immergersi sempre più profondamente. In sintesi, ogni volta che la negoziazione si presenta come complessa (cioè non arriva facilmente a una soluzione soddisfacente per le parti) quello posizionale non è un buon metodo di negoziazione in quanto più a lungo dura più tende a mettere a fuoco le posizioni lasciando sul­lo sfondo le preoccupazioni e gli interessi più generali sottostanti e l’u­scita dal quadrato appare sempre più insensata e umiliante. Il processo negoziale diventa estenuante e produce accordi meno soddisfacenti di quanto sarebbe possibile; di solito accordi che sono una via di mezzo fra le due posizioni finali.

5. Fisher e Ury individuano quattro principali impedimenti che ostacolano l’invenzione di nuove opzioni nella maggior parte delle nego­ziazioni:

1. giudizio prematuro;

2. ricerca della risposta giusta;

3. assumere che la torta è data, non si può espandere (gioco a somma zero);

4. considerare “i loro problemi cosa loro”.

Cambiare le regole del gioco. L’ideale – sostengono sostanzialmente Fisher e Ury – sarebbe di evitare fin dal principio di infilarsi in una ne­goziazione posizionale. Prima di entrare nel merito dei problemi sui quali si intende negoziare, bisogna cercare un accordo di ordine supe­riore, relativo al cambiamento delle regole della negoziazione stessa. In pratica si tratta di dirsi (mia parafrasi): “Cari signori, se noi trattiamo queste questioni in un atteggiamento difensivo-offensivo, ognuno in­chiodato alle proprie posizioni, arriveremo comunque a un accordo misero e non soddisfacente. Perderemo tutti. Invece che vederci come oppositori, dobbiamo sederci dalla stessa parte del tavolo (anche fisicamente) e affrontare assieme gli interessi più generali che sottostanno alle nostre attuali posizioni, sui quali è più facile trovare anche punti di accordo e ideare nuove soluzioni migliori per tutti”. Poi naturalmente bisogna comportarsi di conseguenza, avendo cambiato il gioco, biso­gna seguire le nuove regole del nuovo gioco creativo, alcune delle quali sono sintetizzate da Fisher e Ury nella seguente tavola sinottica.

Separare la gente dal problema. Questa tavola sinottica, in cui la posizione in un conflitto mite è scritta in verde, quella dura rosso, quella di partecipazione creativa in nero, può produrre una molteplicità di riflessioni. Da un lato, se copriamo la parte relativa al “cambiare il gioco” e concentriamo l’attenzione sulle opzioni della negoziazione posizionale, ci possiamo rendere conto che effettivamente in situazioni di tensione e di conflitto noi tutti tendia­mo a oscillare fra il presentarci come “duri” o “miti” e a gestire il rap­porto conflittuale chi più in uno di questi modi, chi più nell’altro. L’i­dea di “cambiare il gioco” non viene spontanea; ci sorprende ed è senz’altro attraente. D’altra parte formulazioni come “prescinde dalla fiducia” e “cerca un accordo su criteri non di potere” appaiono come minimo ingenue, risentono di un approccio che si affaccia sul terreno dell’ascolto attivo senza averlo elaborato. Invece altri slogan come “se­parare la gente dal problema” rientrano pienamente in un’ottica di ascolto attivo.

Si può e si deve, sostengono Fisher e Ury, senza cedere affatto sui problemi che abbiamo a cuore, mantenere il rispetto per gli interlocutori e creare tempi e luoghi per la conoscenza di aspetti delle proprie storie personali che aiutano ad apprezzare i rispettivi punti di vista.

Negoziatore posizionale: mite

duro

Cambiare il gioco: creativo

I partecipanti sono amici

avversari

solutori di problemi

Lo scopo è l’accordo

la vittoria

un esito equilibrato

Le concessioni fatte in nome del rapporto

rivendicate come condizione del rapporto

Separare la gente dal problema

Mite con gente e sul problema

Duro con gente e sul problema

Mite con gente, duro sul problema

Fiducia nell’altro

Sfiducia

Prescinde dalla fiducia

Cambia posizione facilmente

È bloccato

A fuoco gli interessi non le posizioni

Fa proposte

Fa minacce

Esplora, indaga interessi

Esplicita i termini dell’accordo

Li nasconde

Li lascia indeterminati

Si sacrifica unilateralmente

Rivendica vantaggi unilaterali

Inventa nuove opzioni che accolgono gli interessidi entrambi

Soluzione giusta: quella che l’altro accetta

quella che lui accetta

Sviluppa molte opzioni, rimanda a dopo la decisione

Insiste sull’accordo

Insiste sulla posizione

Insiste sul ricorso a criteri oggettivi

Cerca di evitare lo scontro di potere

Cerca lo scontro di potere

Cerca un accordo su criteri non di potere

Cede alle pressioni

Esercita pressioni

Applica i principi della negoziazione creativa

Si può e si deve, sostengono Fisher e Ury, senza cedere affatto sui problemi che abbiamo a cuore, mantenere il rispetto per gli interlocutori e creare tempi e luoghi per la conoscenza di aspetti delle proprie storie personali che aiutano ad apprezzare i rispettivi punti di vista. Non per moralismo, ma perché questo atteggiamento consente la “negoziazione creativa” e quindi il raggiungimento di accordi effettivamente migliori per tutti.

Mentre il mite in nome del mantenimento di buoni rapporti cede nel merito e “il duro” pone il cedimento come condizione per i raporti futuri, “il solutore di problemi” distingue i due livelli e questo gli consente di praticare quegli “spiazzamenti” che consentono di lasciare da parte posizioni per esplorare gli interessi sottostanti.

Per innescare un processo del genere, tuttavia, ci sono quasi sempre una serie di ostacoli iniziali, ci sono delle barriere dovute al fatto che non è facile né convincere l’interlocutore a collaborare, né fargli capire il processo che abbiamo in mente. Se vede ogni spostamento dalle sue posizioni come un cedimento inamissibile… come si fa a “spiazzarlo”, ad indurlo a collaborare?

Una strategia di azione indiretta

Interlocutore: difensivo, ostile, sospettoso, chiuso in se stesso, non desideroso di accordo che vede come sconfitta.

Strategia approccio indiretto. Aggira gli ostacoli, usa la loro forza, la lo­ro resistenza per giungere alla meta. Come quando si va a vela e per ar­rivare in porto, di fronte alla resistenza dei venti e delle maree, si pro­cede a zig zag sfruttando la loro forza.

Azione indiretta: richiede che si adotti un comportamento opposto a quello che ci verrebbe spontaneo e naturale in situazioni di tensione e ostilità.

Obiettivo: abbattere le barriere non è tuo compito. Solo loro possono abbattere le barriere, sfondare i muri della loro resistenza. A te spetta aiu-rli a creare le condizioni più favorevoli per farlo.

Judo, aikido: non offrire con la tua resistenza ai loro attacchi dei punti di appoggio sui quali possono continuare a far leva. Accogli quello che dicono o fanno come un contributo alla soluzione del problema, ai capire meglio.” “Aiutami a capire meglio perché vuoi questo. ecc.

Scopo: prima ancora che a un accordo nel merito dei problemi, si deve rivare alla collaborazione nell’esplorazione del problema che non de-: essere assunto come dato. Gli interlocutori devono riuscire a vedere |se stessi non faccia a faccia, non gli uni contro gli altri, ma impegnati i a fianco contro un problema comune.

TAVOLA SINOTTICA DELLA STRATEGIA DI AZIONE INDIRETTA

Strategia:

Approccio indiretto

Va sul balcone Schierati al loro fianco

Metti a fuoco gli interessi non le posizioni

Inventa nuove opzioni che accolgono gli interessi di entrambe le parti

Nota bene: II rispetto della sequenza strategica è fondamentale, “andare sul balcone” non si può schierarsi al loro fianco, senza queste premesse non si possono mettere a fuoco gli interessi invece delle posizioni, senza aver messo a fuoco gli interessi non si possono esplorare nuove opzioni, allargare le scelte possibili. Ogni passo successivo trae forza e legittimazione da quelli precedenti, i quali tuttavia vanno continuamente riverificati e ribaditi.

Quindi: non si può saltare in avanti, ma si può e si deve tornare indietro quando risulti necessario.

Le tue reazioni: va sul balcone, schierati al loro fianco, prendi tempo.

Le reazioni più naturali di fronte a una persona che reagisce in modo difensive-aggressivo, sono:

a. Simmetrica: lui attacca, io contrattacco, lui urla, io urlo ancor più forte.

b. Complementare: subisci, ti adegui, e. Rompere il rapporto. (Divorzio.)

In tutti e tre questi casi dal punto di vista della cornice relazionale, abbiamo perso.

Nei primi due stiamo collaborando alla danza che ci è stata proposta, abbiamo “abboccato all’amo”. Nel terzo abbandonia­mo la nave, contribuendo a farla affondare.

Consigli, suggerimenti. Nota bene: i consigli che seguono non sono prescrizioni, sono un ampliamento del ventaglio di possibilità e del repertorio dei comportamenti abituali. Sono intesi a offrire una maggio­re possibilità di scelta in queste situazioni.

Primo consiglio: non prenderla personalmente. Verso uno che urla, ti offende. Vedilo come uno che non ce l’ha con te, non prenderla perso­nalmente. Vedilo come uno che è immerso in un immaginario della si­tuazione e di te che non capisci bene (non aver fretta di arrivare alle conclusioni, non prendere per buone le prime spiegazioni che ti passa­no per la mente). Il suo sfogo è segno della sua debolezza, ma anche della sua “umanità”… Rilassati, pensa a quanto gli fa bene sfogare tutta quella acredine. Interpreta le sue urla come dei tentativi maldestri di dirti quale è il suo problema, come vede la situazione.

Secondo consiglio: prendi tempo. È sempre possibile non dire niente. Contare fino a dieci o fino a cento. La pausa, il silenzio unito al consiglio precedente, aiuta anche l’inter­locutore a riacquistare la calma. Non gli offri alcuna resistenza su cui far leva.

Terzo: mettiti dalla sua parte. Vedilo come uno che rendendoti la vita difficile, ti costringe a praticare ancora meglio il gioco dell’ascolto e della collaborazione. In questo senso è un tuo alleato. Di fronte a un discorso polemico, invece di alzarti e andartene: rimani seduto, lascialo sfogare, sii tanto più simpatetico quanto più è irato; di quando in quando chiedigli di continuare (vuoi capire più a fondo!!).

Quarto: usa la parafrasi. La parafrasi è la tecnica fondamentale dell’ascolto attivo. “Provo a vedere se ho capito bene quanto stai dicendo.” L’attenzione è concentrata non su come replicare, ma sul capire bene come vedono la situazione, i loro bisogni, i loro interessi, le costrizioni. Presenta quel che capisci in modo positivo, dal loro punto di vista; sot­tolinea i punti di forza della loro argomentazione. Capire non significa condividere quella visione e quelle opinioni. Se sei in grado di presen­tare il loro caso meglio di loro, poi quando ne mostrerai le debolezze non li tratterai da scemi. In situazioni di tensione, una buona parafrasi è spesso la migliore risposta.

Quinto: prendi appunti. Specie quando chi protesta è un cliente o un dipendente, prendi il taccuino e annota quanto sta dicendo. Il caso che solleva non è semplice e tu per consultarti con altri o per pensarci so­pra, hai bisogno di prendere nota “dei fatti”. Ti consente di rallentare i ritmi del botta e risposta, di chiedergli chiarimenti, di verificare se hai capito bene e di rimandare la discussione a un altro incontro, in una si­tuazione meno tesa.

Sesto: ricorri alla “tattica del tenente Colombo”. Di fronte ad un aut-aut: “Non sono sicuro di aver capito bene”. I gestori creativi dei conflitti sanno che spesso è un vantaggio apparire leggermente ottusi. Ti con­sente di chiedere chiarificazioni e riduce le difese dell’interlocutore. Dichiaralo apertamente: “Chiedo scusa, sono un po’ tarda di comprendonio. Non ho ancora capito…”, “Non vorrei sembrare troppo in­genuo, ma…”

Settimo: rimanda la risposta a un altro momento. “Devo parlarne con la moglie, mio figlio…” “Il mio avvocato mi licenzia se non gli faccio leggere il contratto prima di firmarlo. È fatto così…”

Ottavo: sottolinea la loro competenza/autorità. Se l’interlocutore ha un ego molto vulnerabile o megalomane, prendi anche questa come un’opportunità. Ha bisogno di complimenti, è dipendente dagli altri. Col capo ufficio col quale vuoi discutere un ordine. Inizia: “Tu sei il capo. Rispetto la tua autorità”. Una volta rassicurato, col tempo può anche rendersi conto che esistono anche altri mondi possibili. Consi­glio supplementare: non sposare uno cosi.

In sintesi: non cercare di tenere sotto controllo il comportamento del­l’interlocutore, ma il tuo. Datti tempo. Hai tempo.

Le loro emozioni e le loro matrici percettive-valutative: legittimazio­ne a trecentosessanta gradi.

Errore molto comune, mettersi a ragionare con una persona che non è ricettiva, che è sospettosa, diffidente, chiusa, irata, offesa, ecc… Che non ascolta, non vuole ascoltare. La tentazione è di ignorare queste emozioni e mettere a fuoco il problema. Invece: prima di entrare nel merito del problema, devi disarmarlo, spiazzarlo, indurlo ad ascoltare. Ascolto attivo: sei andato sul balcone per trovare il tuo equilibrio, hai assunto un atteggiamento flessibile adatto all’analisi variazionale; devi aiutarlo a fare lo stesso. L’ascolto attivo è sempre e solo reciproco. Non esiste un ascolto attivo unilaterale.

Rispetto: aiutarlo a entrare nella disposizione d’animo dell’ascolto atti­vo = conquistare la sua disponibilità a considerare che sei degno di ri­spetto. Deve sentirsi sufficientemente accolto e sicuro da poter rischiare di assumersi la responsabilità di stabilire nei tuoi riguardi un rapporto di fiducia, che è sempre in qualche misura congetturale, condizionata. Sorpresa: il segreto per disarmarli è la sorpresa. Se si chiudono in trin­cea, si aspettano che tu ti faccia in quattro per indurli a desistere. Se ti attaccano, si aspettano che tu ti difenda, faccia resistenza. Non fare pressione, non difendetti, non resistere. Invece:

Legittimazione, legittima le loro posizioni, i loro punti di vista, le loro emozioni e sottolinea i punti di accordo. Non è facile. Queste possono essere le ultime cose che ti senti di fare. Devi rovesciare la seguente di­namica, molto più naturale: non ti ascoltano, non li ascolti. Rifiutano di riconoscere la legittimità del tuo punto di vista e tu del loro. Con­trastano e contestano tutto quello che dici e anche a te i punti di accor­do sembrano marginali e futili.

Consigli, suggerimenti.

Primo consiglio: per rompere le dinamiche del dialogo fra sordi, legitti­ma le sue posizioni. Spesso: A espone le proprie posizioni, B non ascolta, troppo impegnato a pensare a come esporre le proprie A (non mi ha ascoltato) ribadisce le proprie B (non mi ha ascoltato) ribadisce le proprie in una sequela di monologhi.

Noi tutti abbiamo un bisogno profondo di riconoscimento, di essere ascoltati. Soddisfare questo bisogno è la condizione della gestione creativa dei conflitti e può essere la chiave di svolta dei negoziati.

L’ascolto attivo richiede “pazienza e autodisciplina” (ma non è vero l’inverso: si può avere pazienza e autodisciplina senza ascolto attivo)

Nota bene: invece di reagire immediatamente, di concentrarsi sulla prossima mossa, fare attenzione a quanto sta dicendo. Le domande necessarie per capire “assumendo che ha ragione” (su quali informazioni si basa e come vede la situazione) e non “chiedendogli di difendersi”,

spostando l’asse della discussione dalle posizioni agli interessi. È molto importante essere consapevoli che le risposte a queste domande sono già cooperazione nell’esplorazione di altri mondi possibili.

Secondo consiglio: legittima i loro punti di vista. Fai ricorso alla formula “Se fossi nei vostri panni anch’io vedrei le cose così…”.

Accogli le correzioni alla tua parafrasi senza aggiungere il tuo punto di vista contrastante. Ricordati che anche la correzione è collaborazione.

Terzo: legittima le sue emozioni. Se è irritato o difensivo, ascolta le sue lamentele e ragioni senza interrompere anche se pensi che abbia torto marcio o che ti stia insultando.

A. Dai legittimazione ai loro sentimenti ed emozioni. Dietro agli at­tacchi, spesso c’è ira, offesa, rabbia. Dietro alla chiusura a riccio, spesso il timore. Se non espliciti e vanifichi le ragioni di queste emozioni, non ti ascolteranno. Esempio: lo stipendio.

L’impiegato entra dal capo “Non ne posso più di essere preso in giro! Ho appena scoperto che Y prende tot più di me a parità di mansioni!”. Se il capo si mette a spiegare il perché e il per come, non sarà ascoltato. Invece: “Pensi che ti stiamo discriminando. Anch’io sarei furente se pensassi così”.

Adesso l’impiegato è messo in grado di ascoltare.

B. Nelle stesso tempo puoi legittimare anche le tue emozioni. Quello che va evitato è un linguaggio colpevolizzante. Esempio: “Ci sentiamo discriminati” invece che “Siete razzisti”. “Ci sentiamo ignorati” invece che “Non avete rispettato i patti” ecc…

C. Ci sono invece dei casi in cui, avendo provato e fallito, provato e fallito, provato e fallito, bisogna proprio mandarli al diavolo. Può esse­re l’unico messaggio che capiscono e che può aiutarli a cambiare.

Quarto: non aver timore di chiedere scusa. Chiedere scusa se si è fatto un errore, ammetterlo apertamente, è un’altra forma di legittimazione.

Ricordate, nel capitolo precedente il caso del padre che chiede scusa al figlio per averlo trascurato e le reazioni di incredulità dei miei studenti? Appunto.

Quinto: sottolinea i punti di accordo. Esempio: le elezioni.

Un senatore USA ai suoi aiutanti: con il mio elettorato dovete far il con­trario di quello che vi hanno insegnato a scuola, dove se eravate d’accor­do sul 99% vi mettevate a discutere sull’I % di disaccordo. Qui invece se siete in disaccordo sul 99%, dovete sottolineare l’accordo sull’I%.

Sesto: non decidere a priori cosa è importante e cosa marginale. È frequen­te, in una negoziazione, trattare come “non importanti” quelle preoc­cupazioni dell’interlocutore che vengono percepite come marginali o non pertinenti rispetto al tema in questione. Al contrario: prestare at­tenzione a questi problemi può essere decisivo per il prosieguo della negoziazione e per il suo esito.

Esempio: Conferenza Internazionale sui Diritti sui Mari e Oceani. Dal 1974 al 1981 i rappresentanti di 150 Nazioni si sono incontrati a New York e Ginevra per trovare una serie di accordi su problemi che andavano dai diritti di pesca allo sfruttamento delle risorse minerarie subacquee.

I rappresentanti dei Paesi del Terzo Mondo: “Vogliamo acquisire tec­nologia e formazione professionale per lo sfruttamento delle miniere di manganese”.

USA e altri: “Certo, non c’è problema. Ma è una questione marginale che discuteremo alla fine”.

(Implicito: “Voi non capite quali sono i veri problemi importanti”). Se tali preoccupazioni fossero state prese sul serio, i rappresentanti dei Paesi del Terzo Mondo avrebbero potuto sbandierare: “Abbiamo otte­nuto questo!” e i loro governi sarebbero stati più disponibili sul resto. La trattativa, invece di durare sette anni, avrebbe potuto raggiungere più rapidamente un esito più soddisfacente per tutti.

Settimo: fai attenzione al linguaggio del corpo. In generale fai capire che li stai ascoltando, con lo sguardo, annuendo, “capisco”, “uh, huh…”, “vai avanti, e dopo, che è successo?” ecc… La parafrasi e l’accoglimento delle emozioni contrastanti con le tue deve essere autorevole e sincera e la comunicazione non verbale lo deve indicare.

Questo è assolutamente impossibile o diventa puro raggiro se ci muoviamo nell’ambito del pensiero semplice, basato su “Io ho ragione, tu hai torto.

Invece col pensiero complesso, diventa naturale (pur rima­nendo non facile…). Su queste basi si può e deve dare atto della fonda­tezza di un altro punto di vista con un atteggiamento di flessibilità e immutata fiducia in se stessi, mantenendo un atteggiamento calmo, di disponibilità, di ragionevolezza. Corpo diritto, sguardo senza esitazio­ni, rivolgiti all’altro come una persona e non solo come il rappresen­tante di questo o quello. Si deve trasmettere un senso sicurezza in sé e di accoglienza. L’obiettivo generale è creare uno “spazio di accoglien­za”; “un campo” di accoglienza reciproca.

Esempio: uno degli ostaggi dell’Ambasciata USA in Iran dal 1979-1981 ha raccontato che ogni volta che la guardia entrava nella sua cella, la invitava ad accomodarsi. “Così li trasformavo in miei ospiti. Creavo la sensazione che quello era un mio spazio, un mio territorio nel quale ero lieto di accoglierli. E loro, dopo una prima esitazione, di solito rea­givano di conseguenza, come se fossero miei ospiti”.

Nell’interfaccia fra pensiero semplice e pensiero complesso. Come si vede, i consigli sono innumerevoli. Se dovessimo tenerli tutti a mente e verificare se li stiamo seguendo tutti, non avremmo più la possibilità di pensare a quello che facciamo e specialmente diventeremmo rigidi, invece che flessibili. Conoscerli è utile, ma invece che allenarsi singo­larmente su questi punti, conviene ENTRARE NELLO SPIRITO DELL’ASCOLTO ATTIVONEL SUO COMPLESSO.

Analoghe riserve vanno estese a una quantità di testi di pedagogia che, con le miglio­ri intenzioni, per aiutare gli insegnanti a essere all’altezza del loro complesso compito di educatori, elencano decine di variabili di cui si deve tener conto relative alle percezioni, alle emozioni, alla comunicazione. La moltiplicazione delle variabili e il tentativo di controllare i mille nessi possibili fra loro è il modo con il quale il pensiero semplice cerca di afferrare il pensiero complesso. In ognuna di quelle variabili non c’è niente di male, quello che è pericoloso è l’atteggiamento complessivo “di controllo” che si rischia di trasmettere e che va molto d’accordo col funzionamento delle burocrazie.

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Si può e si deve, sostengono Fisher e Ury, senza cedere affatto sui problemi che abbiamo a cuore, mantenere il rispetto per gli interlocutori e creare tempi e luoghi per la conoscenza di aspetti delle proprie storie personali che aiutano ad apprezzare i rispettivi punti di vista.

Non per moralismo, ma perché questo atteggiamento consente la “negoziazione creativa” e quindi il raggiungimento di accordi effettivamente migliori per tutti.

Mentre il mite in nome del mantenimento di buoni rapporti cede nel merito e “il duro” pone il cedimento come condizione per i raporti futuri, “il solutore di problemi” distingue i due livelli e questo gli consente di praticare quegli “spiazzamenti” che consentono di lasciare da parte posizioni per esplorare gli interessi sottostanti.

Per innescare un processo del genere, tuttavia, ci sono quasi sempre una serie di ostacoli iniziali, ci sono delle barriere dovute al fatto che non è facile né convincere l’interlocutore a collaborare, né fargli capire il processo che abbiamo in mente. Se vede ogni spostamento dalle sue posizioni come un cedimento inamissibile… come si fa a “spiazzarlo”, ad indurlo a collaborare?

Una strategia di azione indiretta

Interlocutore: difensivo, ostile, sospettoso, chiuso in se stesso, non desideroso di accordo che vede come sconfitta.

Strategia approccio indiretto. Aggira gli ostacoli, usa la loro forza, la lo­ro resistenza per giungere alla meta. Come quando si va a vela e per ar­rivare in porto, di fronte alla resistenza dei venti e delle maree, si pro­cede a zig zag sfruttando la loro forza.

Azione indiretta: richiede che si adotti un comportamento opposto a quello che ci verrebbe spontaneo e naturale in situazioni di tensione e ostilità.

Obiettivo: abbattere le barriere non è tuo compito. Solo loro possono abbattere le barriere, sfondare i muri della loro resistenza. A te spetta aiu-rli a creare le condizioni più favorevoli per farlo.

Judo, aikido: non offrire con la tua resistenza ai loro attacchi dei punti di appoggio sui quali possono continuare a far leva. Accogli quello che dicono o fanno come un contributo alla soluzione del problema, ai capire meglio.” “Aiutami a capire meglio perché vuoi questo. ecc.

Scopo: prima ancora che a un accordo nel merito dei problemi, si deve rivare alla collaborazione nell’esplorazione del problema che non de-: essere assunto come dato. Gli interlocutori devono riuscire a vedere |se stessi non faccia a faccia, non gli uni contro gli altri, ma impegnati i a fianco contro un problema comune.

TAVOLA SINOTTICA DELLA STRATEGIA DI AZIONE INDIRETTA

Strategia:

Approccio indiretto

Va sul balcone Schierati al loro fianco

Metti a fuoco gli interessi non le posizioni

Inventa nuove opzioni che accolgono gli interessi di entrambe le parti

Nota bene: II rispetto della sequenza strategica è fondamentale, “andare sul balcone” non si può schierarsi al loro fianco, senza queste premesse non si possono mettere a fuoco gli interessi invece delle posizioni, senza aver messo a fuoco gli interessi non si possono esplorare nuove opzioni, allargare le scelte possibili. Ogni passo successivo trae forza e legittimazione da quelli precedenti, i quali tuttavia vanno continuamente riverificati e ribaditi.

Quindi: non si può saltare in avanti, ma si può e si deve tornare indietro quando risulti necessario.

Le tue reazioni: va sul balcone, schierati al loro fianco, prendi tempo.

Le reazioni più naturali di fronte a una persona che reagisce in modo difensive-aggressivo, sono:

a. Simmetrica: lui attacca, io contrattacco, lui urla, io urlo ancor più forte.

b. Complementare: subisci, ti adegui, e. Rompere il rapporto. (Divorzio.)

In tutti e tre questi casi dal punto di vista della cornice relazionale, abbiamo perso.

Nei primi due stiamo collaborando alla danza che ci è stata proposta, abbiamo “abboccato all’amo”. Nel terzo abbandonia­mo la nave, contribuendo a farla affondare.

Consigli, suggerimenti. Nota bene: i consigli che seguono non sono prescrizioni, sono un ampliamento del ventaglio di possibilità e del repertorio dei comportamenti abituali. Sono intesi a offrire una maggio­re possibilità di scelta in queste situazioni.

Primo consiglio: non prenderla personalmente. Verso uno che urla, ti offende. Vedilo come uno che non ce l’ha con te, non prenderla perso­nalmente. Vedilo come uno che è immerso in un immaginario della si­tuazione e di te che non capisci bene (non aver fretta di arrivare alle conclusioni, non prendere per buone le prime spiegazioni che ti passa­no per la mente). Il suo sfogo è segno della sua debolezza, ma anche della sua “umanità”… Rilassati, pensa a quanto gli fa bene sfogare tutta quella acredine. Interpreta le sue urla come dei tentativi maldestri di dirti quale è il suo problema, come vede la situazione.

Secondo consiglio: prendi tempo. È sempre possibile non dire niente. Contare fino a dieci o fino a cento. La pausa, il silenzio unito al consiglio precedente, aiuta anche l’inter­locutore a riacquistare la calma. Non gli offri alcuna resistenza su cui far leva.

Terzo: mettiti dalla sua parte. Vedilo come uno che rendendoti la vita difficile, ti costringe a praticare ancora meglio il gioco dell’ascolto e della collaborazione. In questo senso è un tuo alleato. Di fronte a un discorso polemico, invece di alzarti e andartene: rimani seduto, lascialo sfogare, sii tanto più simpatetico quanto più è irato; di quando in quando chiedigli di continuare (vuoi capire più a fondo!!).

Quarto: usa la parafrasi. La parafrasi è la tecnica fondamentale dell’ascolto attivo. “Provo a vedere se ho capito bene quanto stai dicendo.” L’attenzione è concentrata non su come replicare, ma sul capire bene come vedono la situazione, i loro bisogni, i loro interessi, le costrizioni. Presenta quel che capisci in modo positivo, dal loro punto di vista; sot­tolinea i punti di forza della loro argomentazione. Capire non significa condividere quella visione e quelle opinioni. Se sei in grado di presen­tare il loro caso meglio di loro, poi quando ne mostrerai le debolezze non li tratterai da scemi. In situazioni di tensione, una buona parafrasi è spesso la migliore risposta.

Quinto: prendi appunti. Specie quando chi protesta è un cliente o un dipendente, prendi il taccuino e annota quanto sta dicendo. Il caso che solleva non è semplice e tu per consultarti con altri o per pensarci so­pra, hai bisogno di prendere nota “dei fatti”. Ti consente di rallentare i ritmi del botta e risposta, di chiedergli chiarimenti, di verificare se hai capito bene e di rimandare la discussione a un altro incontro, in una si­tuazione meno tesa.

Sesto: ricorri alla “tattica del tenente Colombo”. Di fronte ad un aut-aut: “Non sono sicuro di aver capito bene”. I gestori creativi dei conflitti sanno che spesso è un vantaggio apparire leggermente ottusi. Ti con­sente di chiedere chiarificazioni e riduce le difese dell’interlocutore. Dichiaralo apertamente: “Chiedo scusa, sono un po’ tarda di comprendonio. Non ho ancora capito…”, “Non vorrei sembrare troppo in­genuo, ma…”

Settimo: rimanda la risposta a un altro momento. “Devo parlarne con la moglie, mio figlio…” “Il mio avvocato mi licenzia se non gli faccio leggere il contratto prima di firmarlo. È fatto così…”

Ottavo: sottolinea la loro competenza/autorità. Se l’interlocutore ha un ego molto vulnerabile o megalomane, prendi anche questa come un’opportunità. Ha bisogno di complimenti, è dipendente dagli altri. Col capo ufficio col quale vuoi discutere un ordine. Inizia: “Tu sei il capo. Rispetto la tua autorità”. Una volta rassicurato, col tempo può anche rendersi conto che esistono anche altri mondi possibili. Consi­glio supplementare: non sposare uno cosi.

In sintesi: non cercare di tenere sotto controllo il comportamento del­l’interlocutore, ma il tuo. Datti tempo. Hai tempo.

Le loro emozioni e le loro matrici percettive-valutative: legittimazio­ne a trecentosessanta gradi.

Errore molto comune, mettersi a ragionare con una persona che non è ricettiva, che è sospettosa, diffidente, chiusa, irata, offesa, ecc… Che non ascolta, non vuole ascoltare. La tentazione è di ignorare queste emozioni e mettere a fuoco il problema. Invece: prima di entrare nel merito del problema, devi disarmarlo, spiazzarlo, indurlo ad ascoltare. Ascolto attivo: sei andato sul balcone per trovare il tuo equilibrio, hai assunto un atteggiamento flessibile adatto all’analisi variazionale; devi aiutarlo a fare lo stesso. L’ascolto attivo è sempre e solo reciproco. Non esiste un ascolto attivo unilaterale.

Rispetto: aiutarlo a entrare nella disposizione d’animo dell’ascolto atti­vo = conquistare la sua disponibilità a considerare che sei degno di ri­spetto. Deve sentirsi sufficientemente accolto e sicuro da poter rischiare di assumersi la responsabilità di stabilire nei tuoi riguardi un rapporto di fiducia, che è sempre in qualche misura congetturale, condizionata. Sorpresa: il segreto per disarmarli è la sorpresa. Se si chiudono in trin­cea, si aspettano che tu ti faccia in quattro per indurli a desistere. Se ti attaccano, si aspettano che tu ti difenda, faccia resistenza. Non fare pressione, non difendetti, non resistere. Invece:

Legittimazione, legittima le loro posizioni, i loro punti di vista, le loro emozioni e sottolinea i punti di accordo. Non è facile. Queste possono essere le ultime cose che ti senti di fare. Devi rovesciare la seguente di­namica, molto più naturale: non ti ascoltano, non li ascolti. Rifiutano di riconoscere la legittimità del tuo punto di vista e tu del loro. Con­trastano e contestano tutto quello che dici e anche a te i punti di accor­do sembrano marginali e futili.

Consigli, suggerimenti.

Primo consiglio: per rompere le dinamiche del dialogo fra sordi, legitti­ma le sue posizioni. Spesso: A espone le proprie posizioni, B non ascolta, troppo impegnato a pensare a come esporre le proprie A (non mi ha ascoltato) ribadisce le proprie B (non mi ha ascoltato) ribadisce le proprie in una sequela di monologhi.

Noi tutti abbiamo un bisogno profondo di riconoscimento, di essere ascoltati. Soddisfare questo bisogno è la condizione della gestione creativa dei conflitti e può essere la chiave di svolta dei negoziati.

L’ascolto attivo richiede “pazienza e autodisciplina” (ma non è vero l’inverso: si può avere pazienza e autodisciplina senza ascolto attivo)

Nota bene: invece di reagire immediatamente, di concentrarsi sulla prossima mossa, fare attenzione a quanto sta dicendo. Le domande necessarie per capire “assumendo che ha ragione” (su quali informazioni si basa e come vede la situazione) e non “chiedendogli di difendersi”,

spostando l’asse della discussione dalle posizioni agli interessi. È molto importante essere consapevoli che le risposte a queste domande sono già cooperazione nell’esplorazione di altri mondi possibili.

Secondo consiglio: legittima i loro punti di vista. Fai ricorso alla formula “Se fossi nei vostri panni anch’io vedrei le cose così…”.

Accogli le correzioni alla tua parafrasi senza aggiungere il tuo punto di vista contrastante. Ricordati che anche la correzione è collaborazione.

Terzo: legittima le sue emozioni. Se è irritato o difensivo, ascolta le sue lamentele e ragioni senza interrompere anche se pensi che abbia torto marcio o che ti stia insultando.

A. Dai legittimazione ai loro sentimenti ed emozioni. Dietro agli at­tacchi, spesso c’è ira, offesa, rabbia. Dietro alla chiusura a riccio, spesso il timore. Se non espliciti e vanifichi le ragioni di queste emozioni, non ti ascolteranno. Esempio: lo stipendio.

L’impiegato entra dal capo “Non ne posso più di essere preso in giro! Ho appena scoperto che Y prende tot più di me a parità di mansioni!”. Se il capo si mette a spiegare il perché e il per come, non sarà ascoltato. Invece: “Pensi che ti stiamo discriminando. Anch’io sarei furente se pensassi così”.

Adesso l’impiegato è messo in grado di ascoltare.

B. Nelle stesso tempo puoi legittimare anche le tue emozioni. Quello che va evitato è un linguaggio colpevolizzante. Esempio: “Ci sentiamo discriminati” invece che “Siete razzisti”. “Ci sentiamo ignorati” invece che “Non avete rispettato i patti” ecc…

C. Ci sono invece dei casi in cui, avendo provato e fallito, provato e fallito, provato e fallito, bisogna proprio mandarli al diavolo. Può esse­re l’unico messaggio che capiscono e che può aiutarli a cambiare.

Quarto: non aver timore di chiedere scusa. Chiedere scusa se si è fatto un errore, ammetterlo apertamente, è un’altra forma di legittimazione.

Ricordate, nel capitolo precedente il caso del padre che chiede scusa al figlio per averlo trascurato e le reazioni di incredulità dei miei studenti? Appunto.

Quinto: sottolinea i punti di accordo. Esempio: le elezioni.

Un senatore USA ai suoi aiutanti: con il mio elettorato dovete far il con­trario di quello che vi hanno insegnato a scuola, dove se eravate d’accor­do sul 99% vi mettevate a discutere sull’I % di disaccordo. Qui invece se siete in disaccordo sul 99%, dovete sottolineare l’accordo sull’I%.

Sesto: non decidere a priori cosa è importante e cosa marginale. È frequen­te, in una negoziazione, trattare come “non importanti” quelle preoc­cupazioni dell’interlocutore che vengono percepite come marginali o non pertinenti rispetto al tema in questione. Al contrario: prestare at­tenzione a questi problemi può essere decisivo per il prosieguo della negoziazione e per il suo esito.

Esempio: Conferenza Internazionale sui Diritti sui Mari e Oceani. Dal 1974 al 1981 i rappresentanti di 150 Nazioni si sono incontrati a New York e Ginevra per trovare una serie di accordi su problemi che andavano dai diritti di pesca allo sfruttamento delle risorse minerarie subacquee.

I rappresentanti dei Paesi del Terzo Mondo: “Vogliamo acquisire tec­nologia e formazione professionale per lo sfruttamento delle miniere di manganese”.

USA e altri: “Certo, non c’è problema. Ma è una questione marginale che discuteremo alla fine”.

(Implicito: “Voi non capite quali sono i veri problemi importanti”). Se tali preoccupazioni fossero state prese sul serio, i rappresentanti dei Paesi del Terzo Mondo avrebbero potuto sbandierare: “Abbiamo otte­nuto questo!” e i loro governi sarebbero stati più disponibili sul resto. La trattativa, invece di durare sette anni, avrebbe potuto raggiungere più rapidamente un esito più soddisfacente per tutti.

Settimo: fai attenzione al linguaggio del corpo. In generale fai capire che li stai ascoltando, con lo sguardo, annuendo, “capisco”, “uh, huh…”, “vai avanti, e dopo, che è successo?” ecc… La parafrasi e l’accoglimento delle emozioni contrastanti con le tue deve essere autorevole e sincera e la comunicazione non verbale lo deve indicare.

Questo è assolutamente impossibile o diventa puro raggiro se ci muoviamo nell’ambito del pensiero semplice, basato su “Io ho ragione, tu hai torto.

Invece col pensiero complesso, diventa naturale (pur rima­nendo non facile…). Su queste basi si può e deve dare atto della fonda­tezza di un altro punto di vista con un atteggiamento di flessibilità e immutata fiducia in se stessi, mantenendo un atteggiamento calmo, di disponibilità, di ragionevolezza. Corpo diritto, sguardo senza esitazio­ni, rivolgiti all’altro come una persona e non solo come il rappresen­tante di questo o quello. Si deve trasmettere un senso sicurezza in sé e di accoglienza. L’obiettivo generale è creare uno “spazio di accoglien­za”; “un campo” di accoglienza reciproca.

Esempio: uno degli ostaggi dell’Ambasciata USA in Iran dal 1979-1981 ha raccontato che ogni volta che la guardia entrava nella sua cella, la invitava ad accomodarsi. “Così li trasformavo in miei ospiti. Creavo la sensazione che quello era un mio spazio, un mio territorio nel quale ero lieto di accoglierli. E loro, dopo una prima esitazione, di solito rea­givano di conseguenza, come se fossero miei ospiti”.

Nell’interfaccia fra pensiero semplice e pensiero complesso. Come si vede, i consigli sono innumerevoli. Se dovessimo tenerli tutti a mente e verificare se li stiamo seguendo tutti, non avremmo più la possibilità di pensare a quello che facciamo e specialmente diventeremmo rigidi, invece che flessibili. Conoscerli è utile, ma invece che allenarsi singo­larmente su questi punti, conviene ENTRARE NELLO SPIRITO DELL’ASCOLTO ATTIVO NEL SUO COMPLESSO.

Analoghe riserve vanno estese a una quantità di testi di pedagogia che, con le miglio­ri intenzioni, per aiutare gli insegnanti a essere all’altezza del loro complesso compito di educatori, elencano decine di variabili di cui si deve tener conto relative alle percezioni, alle emozioni, alla comunicazione. La moltiplicazione delle variabili e il tentativo di controllare i mille nessi possibili fra loro è il modo con il quale il pensiero semplice cerca di afferrare il pensiero complesso. In ognuna di quelle variabili non c’è niente di male, quello che è pericoloso è l’atteggiamento complessivo “di controllo” che si rischia di trasmettere e che va molto d’accordo col funzionamento delle burocrazie.


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