08 – Il linguaggio del corpo

OTTAVO CAPITOLO

Il linguaggio del corpo.

Codice analitico e codice analogico.

Noi comunichiamo attraverso due codici, ossia due sistemi di segni.

Il codice analitico è quello tipi­co del linguaggio verbale.

Opera in modo simbolico-convenzionale ed è adatto per di­sporre le idee in modo lineare in sequenze di tempi –prima e dopo-, secondo rapporti di causa ed effetto, a esprimere contenuti assertivi e denotativi valutabili in termini di vero-falso, a focalizzare il discorso su variabili isolate o isolabili, ad attribuire predicati a cose e persone. In sintesi: a concentrarsi sui termini della relazione lasciando sullo sfondo la relazione stessa. La modalità di clas­sificazione a cui questo codice si presta meglio è quella evidenziata dal­la logica classica: costruire degli insiemi basati sull’astrazione di carat­teri comuni a una pluralità di oggetti. Così quando diciamo “tavolo” ci riferiamo ai caratteri comuni a tutti i tavoli. Ed è così che la fragola e la quercia possono essere entrambe classificate come “piante”.

E’ analitico, simbolico, astratto, logico, lineare., temporale: è la nostra lingua.

Il codice analogico è tipico del linguaggio non verbale ed è spe­cializzato nel campo della forma, opera attraverso configurazioni e contesti, permette la ricostruzione e il riconosciamento di una totalità a partire da alcuni dettagli, giudica la somi­glianzà e dissimiglianza formali fra elementi, comportamenti, fra forme complesse, suggerendo delle relazioni.

E’ tipico del disegno.

Il codice analogico considera le caratteristiche formali di situazioni contingenti e concrete, piuttosto che astrarre da queste. Instintivamente accoglie la metafora, il significato si una immagine, di una scena. Si serve di questi elementi per comunicare.

Corrisponde a una abitudine di pensiero che mette in primo piano le relazioni e considera secondari i termini delle stesse.

E’concreto, atemporale, spaziale, intuitivo, globale.

Possiamo rappresentare questa differenza così:

Analogico

Mettere a fuoco la relazione lasciando i termini sullo sfondo

Analitico

Mettere a fuoco i termini della relazione lasciando la relazione stessa sullo sfondo

Il linguaggio del corpo usa il codice analogico-

Uno dei più importanti studiosi dell’argomento è Gregory Batenson e al suo studio si riferiscono molti degli argomenti trattati.

Uno degli aspetti più interessanti di questo tema è la differenza tra il linguaggio del corpo e il linguaggio verbale. Se noi cerchiamo di trasformare in un linguaggio verbale il linguaggio del corpo degli animali, ci rendiamo conto che il linguaggio del corpo è molto più complesso , e tiene conto di una specifica situazione relazionale, difficilmente traducibile inel linguaggio verbale.

Prendiamo ad esempio questo episodio.

L’incontro col gatto.

Apro la porta del frigo­rifero. Il gatto arriva e si strofina contro la mia gamba ed emette una variante della proposizione “miao”. Asserire che comunica “Dammi del latte” può essere utile, ma non è una traduzione corretta dal suo linguaggio al nostro.

Più fedelmente dovremmo tradurre “Sii mamma”, “Fammi da mamma”. “Sii mamma, ora” o “Sii mamma con riferimento a quel bricco”, ecc… Questa forma di comunicazione non è riducibile né a uno “stimolo”, né a una “risposta”, pur presentandosi anche come tali. Non è neppure riducibile a “una descrizione” e nemmeno a “un ordine”: strofinandosi sulla mia gamba e facendo “miao” il gatto evoca un contesto relazionale del quale lui è già pienamente parte.

È miniando i movimenti di un cucciolo che mi invita a “fargli da mam­ma”; sta attivando una dinamica configurazionale (che corrisponde al­la dipendenza filiale da un lato e cura materna dall’altro) a partire dalla parte (dipendenza filiale) che sta già interpretando.

Avendo a disposi­zione solo il linguaggio del corpo, il gatto comunica in quanto coin­volge l’interlocutore e può coinvolgerlo solo compromettendosi fisicamente ed emozionalmente evocando modi di esprimersi che corrispondo­no a specifiche e contingenti configurazioni della socialità e del potere.

Potremmo dire che il comportamento del gatto predispone un contesto (lo “inscena”) che, in quel momento e in quel luogo in virtù di un modo tipico del linguaggio del corpo rende pre­vedibile una mia collaborazione automatica.

La storia passata della nostra relazione esclude che io in quella situazione gli dia un calcio.

Se in quella situazione gli do un calcio, non gli faccio solo male fìsicamente, ma prima ancora “moralmente”.

Visto al microscopio e al rallentatore, il rapporto fra linguaggio del corpo e linguaggio delle emozioni si presenta come segue: nel compor­tamento del gatto posso distinguere una serie di specifici segnali, come l’enfasi e la tenerezza con la quale si strofina sulla mia gamba, il tono del suo miagolio, ecc… che da un lato mi indicano l’intensità del suo coinvolgimento in quella configurazione, e dall’altro sono un invito più o meno pressante al mio attivo coinvolgimento nella stessa. Questi “segnali di umore” o “di stato” sono la manifestazione esteriore di quelle che noi comunemente chiamiamo “emozioni”.

Mettiamo che il gatto e io stiamo convivendo da tempo e che a una certa ora sono solita dargli del latte. Il fatto che questo comportamen­to sia abituale fa sì che la configurazione del nostro rapporto possa ri­manere sullo sfondo e io posso concentrarmi sull’andare al frigorifero,

aprirlo, versare il latte, ecc… Se in questo contesto il gatto viene a stro­finarsi sulle mie gambe con particolare tenerezza, porta la relazione in primo piano, mi coinvolge più attivamente e coscientemente nella re­lazione. Lo scopo principale di quella comunicazione emozionale non è farmi sapere come si sente nell’intimo della sua psiche e neppure che vuole il latte che gli davo ugualmente come lui sa benissimo; lo scopo è ribadire e denotare la configurazione di una relazione tra noi. Un risultato di questo mettere in primo piano quelle dinamiche relazionali può essere che nell’accudirlo esibirò maggiore cura e amorevolezza, che oltre al latte gli darò anche una grattatina sul capo alla quale risponderà con delle fusa, ecc… Se così è, ci stiamo mandando vicendevolmente una serie di rinforzi posi­tivi su quella configurazione di cui entrambi siamo parte. Entrambi ci stiamo dando da fare non a compiere delle azioni in un contesto rela­zionale scontato, ma a tener vivo, a mettere in primo piano quel conte­sto.

Quindi il linguaggio del corpo è un linguaggio emozionale, cioè non è un linguaggio che esprima ordini, pensieri, decrizioni, idee astratte come può essere il linguaggio verbale, ma è un linguaggio che , esprimendo delle emozioni cerca di coinvolgere la persona a cui è diretto emotivamente.

La comunicazione emozionale

Le emozioni possono essere semplicemente causate da uno stimolo esterno (mi commuovo davanti a un tramonto), ma, in un contesto di comunicazione, possono essere molto di più.

Se in una situazione conflittuale interpretiamo il nostro desiderio di ag­gredire solo come la risposta a uno stimolo ambientale, non vediamo quello che più importa: che così facendo stiamo proponendo una col­laborazione, un coinvolgimento. Non vedremo che ogni reazione vio­lenta nostra o dell’interlocutore si presenta non solo come la risposta a uno stimolo, ma anche e principalmente come un rinforzo positivo a quella situazione di conflitto, e che più ci azzanniamo. più ci coinvolgiamo e coinvolgiamo l’interlocutore nella situazione conflittuale. Insomma l’emozione non è solo un effetto, ma anche una causa di un sistema relazione che tende a riprodursi, a continuare in modo uguale, come generalmente proposto dalle nostre cornici culturali.

La comunicazione emozionale è del tipo: in questa situazione con­tingente siamo coinvolti in una relazione che per noi è importante e le nostre azioni vanno lette come contri­buti per tenerla in vita, perché tale relazione fa parte della nostra cultura sociale.

La comunicazione non verbale è di ordine superiore.

Quando si dice che i gatti e i cani non sono in grado di comunicare cose o idee, ma possono solo manifestare emozioni – ha sostenuto Bateson – è giusto asserire che le loro forme di comunicazione sono limitate rispetto agli umani i quali possono disporre sia del codice analogico che di quello analitico, ma dobbiamo anche sapere che sono limitate a un linguaggio di un ordine che è superiore; i loro segnali operano a livelli di astrazione più elevati di quelli consentiti dal solo linguaggio verbale in quanto sono segnali che definiscono e propongono le contingenze dei rapporti.

Tocchiamo qui con mano quello che sembra un paradosso: l’adozione di un’abitudine di pensiero relazionale, attenta alla forma, ad alto ordi­ne di astrazione, va di pari passo con l’estrema attenzione per “l’espe­rienza basata sul sensoriale”.-

La comunicazione altamente astratta dell’arte si basa sulla concretezza di una materia.:

esempio, esprimo gioia con dei colori.

L’emozione è un passo di danza.

Come sappiamo, l’arte tipica del corpo è la danza.

La danza, come ogni arte è espressione e comunicazione, non tanto di idee e di concetti, ma di emozioni e stati d’animo. Nell’educazione alla socialità, il nostro corpo impara a configurare

delle danze, che non sono azioni da palcoscenico, non sono danze evidenti che seguono un ritmo e una musica, ma movimenti che seguono un “copione” inconscio che presuppone passi specifici e determinate configurazioni inconsapevoli, che sfuggono alla nostra coscienza.

Questo principio vale per le configurazioni (forme del linguaggio emozionale) denotate dall’amore quanto per quelle denotate dall’odio. Se lo scenario instau­rato è “facciamo la lotta”, “fammi da nemico”, ogni azione tesa a ferire l’altro è una collaborazione a tenere vivo quel sistema. Quindi si è nemici sul piano dei comportamenti, ma si coopera su quello della configurazione rela­zionale.

Se uno mi da intenzionalmente un pugno (non stava cadendo e per sbaglio per riequilibrarsi mi ha dato un pungo…), sta evocando e proponendo uno scenario del tipo: “Sii antagonista”. E allora devo sapere che quando reagisco anch’io con un pugno, a un li­vello – quello dell’azione – mi sto opponendo, a un altro – quello del contesto relazionale – sto collaborando.

Mi sono lasciata coinvolgere in quella danza che l’altro col pugno proponeva. D’altra parte, se non reagisco e faccio la vittima, non mi sottraggo a quella danza, sto solo collaborando (forse) a chiuderla più in fretta. Era una danza vincitori-vinti e lui ha vinto. L’unico modo vero per non collaborare è proporre una danza diversa e indurre l’altro a cambiar danza. Non è mai facile, ma è relativamente più facile se sono consapevole che l’altro non può sostenere la danza nella quale è impegnato senza la mia collaborazione.

Le le emozioni, quindi, non sono solo informazioni che il nostro essere sta reagendo a degli stimoli ambientali, le emozioni sono passi di danza nel senso che si esprimono attraverso il corpo configurazioni che sono in armonia con il contesto sociale in cui l’uomo è stato educato, e tendono a coinvolgere le persone che partecipano alla stessa cultura proprio come la danza invita a seguire gli stessi passi. Metaforicamente parlando come ci sono i passi di walzer o di tango o di altri balli, così c’è la “danza” della paura , la “danza” dell’invidia, o di altre relazioni sociali.

Se assecondiamo questa metafora, ogni volta che proviamo un’emozio­ne o che cerchiamo di interpretare i segni esteriori di emozioni provate da altri dovremmo chiederci: “Di quale danza questi passi di danza so­no al tempo stesso parte e proposta?”.

Questo ci facilita molto a prevedere azioni e reazioni che saranno innescate dai nostri comportamenti. Evidentemente possiamo liberamente accettare lo scenario positivo, ma

trovare delle soluzioni alternative, quando prevediamo una “danza” negativa.

Un esempio: Il poeta Allen

Il poeta Allen Ginsberg, anni fa, fu invitato a recitare delle sue poesie su una spiaggia, in riva al mare. Gli organizzatori avevano predisposto una piattaforma e uni microfono che però non funzionava bene. C’erano al­cune centinaia di persone che in piccoli gruppi, nell’attesa, cantavano, suonavano la chitarra, chiaccheravano. Gli organizzatori per invitare il pubblico al silenzio si erano messi ad agitare le mani e urlare, senza al­cun esito apprezzabile. Ginsberg un po’ accigliato li pregò di sedersi e starsene tranquilli. Sali sul palco, si sedette a gambe incrociate e assu­mendo la posa della meditazione buddista, vi si immerse completa mente. Nel giro di una decina di minuti, la piccola folla era in assoluto silenzio, apparentemente immersa anch’essa in una sorta di meditazio­ne. Ginsberg aveva capito che in quella situazione non solo non era ne­cessario “dare ordini”, ma che gli ordini sarebbero stati in contrasto, in dissonanza con il clima necessario per recitare e ascoltare le sue poesie. Vedete come è utile conoscere… “il linguaggio dei gatti”. Contingenza: un effetto del genere in quella situazione, forse poteva otte­nerlo solo Ginsberg in virtù della sua fama e autorevolezza. Ma come fac­ciamo a saperlo: gli organizzatori non ci hanno nemmeno provato.

Quel­la possibilità è venuta in mente a loro, solo “dopo”.

Lettura

Le tecniche della nonviolenza. La consapevolezza dell’importanza del linguaggio del corpo è alla base di tutti i trattati sulla gestione creativa dei conflitti. È anche all’origine delle tecniche gandhiane della nonviolenza. La distinzione fra “cedere alla violenza” e “tecnica della nonviolenza” è impossibile senza una grande attenzione per il linguaggio del corpo come costruttore di sce­nari, proprio nel senso esemplificato sopra dal rapporto col gatto. Nella tecnica della nonviolenza la negazione della collaborazione non consiste nel lasciarsi picchiare, ma nel trasformare anche l’essere pic­chiati in un’occasione per proporre un altro scenario in cui anche l’in terlocutore può avere un’altra dignità e altre scelte. Provate a immagi­nare la scena della “Marcia del sale” nel film sulla vita di Gandhi: tutte quelle schiere di uomini vestiti di bianco che avanzano verso i poliziot­ti armati di bastoni e che subiscono i colpi senza essere né vittime, né rassegnati; avanzano guardando i poliziotti negli occhi, con grande di­gnità. Ricordate lo sguardo smarrito dei picchiatori, le loro esitazioni, e anche il giornalista amico che annota tutto questo sul suo taccuino, pedina cruciale di una “specifica contingenza” che rende possibile spe­rare nella vittoria attraverso il coinvolgimento dell’opinione pubblica. La danza dei marciatori è assurda, dal punto di vista dei picchiatori e anche dal nostro punto di vista: è la danza del rispetto reciproco; gli uomini vestiti di bianco sono impegnati a far prevalere una “idea con­cretizzata” di reciprocità fra coscienze dotate di pari diritto e pari signi­ficato in una situazione di tensione, violenza, e pericolo. È una scom­messa giocata sulla propria pelle e col proprio corpo che si vince solo attraverso una crisi morale dell’interlocutore, sia quello in carne e ossa, sia quello che ha dato gli ordini, sia coloro che siedono in platea e si li­mitano a guardare. Le armi della nonviolenza sono il non comportarsi da vittime e il non comportarsi da nemici potenziali, far leva sulla for­za morale contro la forza fisica. Niente affatto facile. Ma qui vorrei sot­tolineare che non è neppure facile da descrivere adeguatamente e che non è affatto marginale per questo tipo di battaglie poter fare affida­mento su narrazioni in grado di rendere fedelmente il loro spessore morale e la loro complessità; senza le emozioni il pensiero rimane vincolato a un ordine logico inferiore in grado di denotare i comportamenti, ma non i contesti.

Facciamo degli esempi più vicini al nostro stile di vita: la danza dell’Invidia e della Paura

Invidia. Non è causata dal fatto che un collega ha ricevuto un riconoscimento al quale anch’io ambisco. (Versione “sti­molo-risposta”.) E neppure dal fatto che avendo lui ricevuto quel rico­noscimento, io mi sento diminuita nei suoi riguardi. (Versione “le emozioni sono espressioni di stati d’animo o di giudizi privi di premes­se”.) L’invidia invece va vista come una collaborazione a una danza in cui l’altro (realmente o nell’immaginario) si da delle arie e io mi sento diminuita. E infatti se lui non si da delle arie, non assume un atteggia­mento di alterigia, ma invece di modestia, mi sen­tirò spiazzata. Non sta collaborando.

Paura. Se vedo una persona arrivare e ho paura, sbaglio se interpreto questa emozione come un’informazione che quella persona è pericolo­sa. (Informazione su un termine del rapporto: lui.) Non sbaglio, ma vado poco lontano se la interpreto come un’informazione che giudico quella persona “pericolosa”. (Informazione sull’altro termine del rap­porto: io.)

La paura invece va vista come un’informazione che il mio corpo si sta predisponendo a recitare la parte della potenziale vittima in una danza in cui l’altro “è invitato” a giocare la parte dell’aggressore. Se non mi aggredisce sarò al tempo stesso contenta e spiazzata. Con­tenta perché salva, spiazzata nella misura in cui mi ero esposta in una danza che non ha avuto seguito.

Non impariamo a essere invidiosi, ma impariamo a danzare la danza invidia-alterigia. E impariamo che questa danza nella nostra cul­tura (o sottocultura) va messa in atto automaticamente in certe specifi­che occasioni.

Gli esempi che abbiamo fatto sull’incontro-scontro con una cultura straniera, nei capitoli precedenti riguardano l’emergere di queste Ge­stalt che possiamo calare più profondamente nell’inconscio perché nella nostra cultura non vengono mai “smentite”.

Se qualcuno si comporta come Ana in occasione di un lutto o come la direzione del­l’albergo giapponese, li giudichiamo semplicemente dei “cafoni”. Sono ipotesi accettabili nella nostra cultura, a meno di non avventurarci ai confini del sistema di cui siamo parte, andando incontro a un’esperienza di bi-sociazione, di doppia descrizione, di spiazzamento.

Ma come evitare un passo di danza che porta al conflitto?

Occorre trasformare la danza.

Passare dalla danza dell’ Invidia maligna a quella dell’ invidia benigna.

Proviamo a vedere di cosa si tratta, sviluppando fenomenologicamente il passaggio dall’invidia maligna a quella benigna.

Nell’invidia maligna il successo di A è visto come qualcosa che mi di­minuisce, qualcosa che, invece che a lui, doveva capitare a me e che in quanto tale giustifica la mia ostilità, il mio astio. Nell’invidia benigna bisogna riuscire a prendere le distanze da questo punto di vista, bisogna prendere atto che l’invidia maligna è una rea­zione presente nella nostra cultura (in molti ambienti è la reazione più conformista, prototipica) ma non è quella che scegliamo. Comunicare questa complessità non è facile e infatti l’umorismo con la sua capacità di esprimere le bisociazioni e i paradossi aiuta molto: “Congratulazio­ni! Sono verde di invidia, ma sono contenta per te!”.

Quando mi congratulo sinceramente con A per un successo di cui sono sinceramente invidiosa, metto in atto una dinamica emozionale al­quanto più complessa, più “spessa”, della semplice invidia maligna e induco anche l’altro a un comportamento più virtuoso.

Ma mettiamo che quando esclamo “Congratulazioni! Sono verde di invidia, ma sono contenta per te!”, l’interlocutore reagisca con un mo­to di alterigia, di protervia. Un moto che in qualche modo significa: “Poche storie, tu sei solo una poveretta e io ti sono superiore, come questo mio successo dimostra”. Mantenere un atteggiamento benigna­mente umoristico in un caso del genere, non è facile. In altre parole: alla lunga posso reggere nell’invidia benigna solo se l’altro collabora dandomi atto che anch’io sono importante.

La cultura dominante ci porterebbe a pensare che “provano invidia le persone invidiose”.

Provi una fitta di invidia e pensi: “Oddio, sono invidiosa!”.

Questo è un approccio vera­mente superficiale al sapere delle emozioni.

Dobbiamo diventare consapevoli che noi non “siamo” i nostri moti emozionali automatici. Siamo in grado di provare delle emozioni sulle nostre emozioni di primo grado, di instaurare un dialogo con esse. Noi siamo il tipo di dialogo che instauriamo con i nostri moti emozionali e lo stile con il quale li gestiamo. Se non provassimo in prima istanza “invidia maligna” in una società che da per scontata la polarizzazione invidia-alterigia, non capiremmo niente di questa società; non po­tremmo mai diventare né bravi osservatori, né ascoltatori, né narratori, né scienziati sociali.

Ci vuole distacco e coinvolgimento, attesa e intesa, anche all’interno della società di cui siamo parte, perché si dia “autoconsapevolezza emozionale”.

Le persone più propense a provare invidia benigna, provano l’invidia ma­ligna, ma sanno osservare al rallentatore e al microscopio i propri moti emozionali e instaurare con essi un dialogo del tipo sopra esemplificato.

In definitiva: possiamo scegliere, ma per farlo dobbiamo aver esplorato un più ampio arco di possibilità, dobbiamo sapere che esisto­no altre danze. Una delle conseguenze dello stato di subalternità e marginalità assegnato alle emozioni dall’epistemologia dominante è che siamo poco allenati in questa esplorazione, veniamo educati ad ac­contentarci di archi di possibilità troppo ristretti e soffocanti. Per colti­vare archi di possibilità più vasti, ci vuole il tocco dell’umorista. Praticando una corretta interpretazione delle emozioni:

1. siamo in gra­do di individuare il mettersi in moto di quella certa danza fin dai suoi primi accenni; ci abituiamo ad attribuire un grande valore e la dovuta attenzione ai piccoli e apparentemente marginali segnali cinetici e paralinguistici del nostro e altrui corpo; guardiamo come i corpi si muo­vono nello spazio sociale e come muovendosi riconfigurano lo spazio sociale;

2. sappiamo che questi segnali non ci informano prevalente­mente su degli scenari “interni”, ma su delle configurazioni relazionali sociali e quindi non isoleremo questi segnali, ma li vedremo come par­te di più ampie circolarità dinamiche;

3. non interpreteremo le sensazioni di spiazzamento prevalentemente come punizioni, ma come oc­casione di esplorazione configurazionale. Praticheremo l’auto-spiazzamento e siccome sapremo metterlo a frutto sarà un’esperienza di “lie­tezza” straordinaria e creativa.

La comunicazione degli umani e degli animali, punti di forza e punti deboli.

Punti di forza degli uomini:

Dispongono del linguaggio verbale.

Possono ampliare il linguaggio del corpo servendosi dell’ambiente.

Punti deboli:

Danno troppa importanza nell’educazione al linguaggio verbale rispetto a quello del corpo.

creando spesso delle contraddizioni.

Pensano che il linguaggio del corpo sia traducibile con quello verbale.

Fiorisce così la “retorica del controllo” di cui abbiamo già ampliamente parlato.

È attorno a un anno di età che il bambino incomincia a sovrapporre e mischiare i due codi­ci, quello analogico e quello analitico il quale diviene sempre più im­portante con la piena acquisizione del linguaggio verbale.

Come con­seguenza della complementarità e interdipendenza fra questi due codi­ci gli esseri umani non solo hanno potuto inventare la matematica e la logica classica, ma possono anche scrivere poesie e musica e in generale sviluppano una vita relazionale ed emozionale molto più complessa, ricca e differenziata di quanto non sia la vita emozionale e relazionale dei mammiferi non umani.

E tuttavia nell’interpretare il linguaggio delle emozioni abbiamo un handicap che i gatti non hanno, legato paradossalmente pro­prio alla grande efficacia del linguaggio verbale che non ci rende consapevoli della superiorità del linguaggio non verbale.

Le parole ci permettono la costruzione di modelli sui nostri com­portamenti e sul mondo. Ci permettono di comunicare sbrigativa­mente “dammi il latte” senza il bisogno di ricorrere a vistose moine e questo ci può indurre a pensare che il corpo sia un optional nella comunicazione. Diviene facile pensare che l’atto importante, istitutore del quadro dialogico, sia il dire “Ti faccio da mamma” e le emozioni solo un ornamento per indicare l’intensità del desiderio che accompa­gna quel pronunciamento. Ma nel dire “Ti faccio da mamma”, è pur sempre il tono di voce e la postura con cui mi esprimo e il luogo in cui siamo e chi siamo che organizzano la scena entro cui stiamo agendo e definiscono le aspettative sulle regole e contingenze della nostra rela­zione in quella situazione specifica. Basta usare il tono ironico e il si­gnificato di quella frase cambia completamente, oppure pronunciarla col corpo e la voce come quelli di un robot, oppure all’interno di una cerimonia rituale.

Certo gli esseri umani hanno anche un’altra grande risorsa: possono trasferire le moine del linguaggio dal corpo all’ambiente.

L’ufficio del Direttore generale è all’ultimo piano ed è organizzato in modo tale da evitare al Direttore di dover fare tante moine per met­tere in scena un messaggio di “dominanza-subalternità”. Entrando lì dentro lo percepiamo immediatamente. L’ambiente diviene un parzia­le sostituto e rafforzativo dei messaggi paralinguistici e cinetici del lin­guaggio del corpo. Sostituto parziale perché anche se questo trasferi­mento consente al Direttore di mostrarsi eventualmente quanto mai affabile e alla mano, rimane affidato alle transazioni dirette fra gli in­terlocutori il definire e ridefinire in continuazione le specifiche e con­tingenti configurazioni nelle quali sono coinvolti. Provate, entrando nell’ufficio del Direttore, a sedervi sulla sua poltrona invece che in quella assegnata ai visitatori o a mettergli una mano sulla spalla e state a vedere come reagisce. Il rispetto dell’ethos del luogo e la sua continua definizione e ridefinizione rimangono affidati in ultima istanza sempre alle transazioni fra gli interlocutori.

Ci rendiamo conto dell’importanza del linguaggio non verbale solo quando tradisce le nostre aspettative. Poiché questo è il linguaggio dei processi primari, i messaggi sulle regole e contingenze delle relazioni non solo di solito sono emessi non verbalmente ma an­che inconsciamente e inconsciamente recepiti. Come membri di una certa cultura – lo abbiamo già visto – siamo allenati a riconoscere in­consciamente tutto un repertorio di possibili configurazioni relaziona­li e a reagire tendenzialmente in consonanza con esse.

I membri di una data cultura sono tali proprio in quanto hanno fiducia di condividere certe aspettative riguardanti le contingenze dei rapporti. Questo ci permette di dare per scontate queste aspettative e il linguaggio del cor­po che a esse corrisponde e di fissare l’attenzione su ciò che avviene dentro quel contesto.

È solo quando le attese date per scontate vengono disattese, che inco­minciamo a renderci conto della loro esistenza. Questo è il motivo per cui negli esempi sulla paura e sull’invidia di cui sopra lo spiazzamento assume il ruolo di “momento della verità”.

Ed è il motivo per cui l’esperienza interculturale che è il cuore del me­stiere degli antropologi, ma sta diventando esperienza della vita quoti­diana di tutti, ha un ruolo così centrale, paradigmatico.

L’importanza della comunicazione non orale è ben evidente in questo brano che racconta un episodio della vita di Abdù’l Bahà.

Ho sottolineato con gli asterischi i momenti espressivi del corpo: sono

moltissimi

UN INCONTRO CON ‘ABDU’L-BAHA’

Mentre mi avvicinavo alla porta dove ancora Si trovava, *fece cenno*

agli altri di andare e *tese verso di me la Sua mano*

come se mi avesse conosciuto da sempre. E, *mentre le nostre destre si incontravano*,

*con la Sua sinistra indicò* a tutti gli altri di lasciare la stanza, poi mi guidò

dentro e chiuse la porta.

*Con la mia mano nella Sua*, ‘Abdu’I-Bahá attraversò la stanza

dirigendosi verso la finestra dove ci attendevano due sedie. Perfino allora

la *maestà del Suo passo* m’impressionò e mi sentii come un fanciullo guidato

dal padre, anzi più di un padre terreno, ad una confortante riunione.

*La Sua mano tratteneva ancora la mia* e di frequente

*la Sua presa mi serrava* e *la stretta si faceva più intima*, per la prima volta, parlò,

e parlò nella mia stessa lingua:

teneramente mi assicurò che ero il Suo carissimo figlio.

Sedemmo poi sulle due sedie poste vicino alla finestra: _

*ginocchio contro ginocchio, occhi negli occhi.*

Alla fine, *guardò dritto dentro di me.*

Era la prima volta che accadeva da quando i nostri sguardi si erano

incrociati con il primo movimento della Sua mano.

Ed ora, nulla interferiva fra noi*e mi guardava.*

*Guardava me!*

Mi parve come se mai qualcuno mi avesse realmente visto

prima. Percepii dentro di me un senso di gioia come se alla fine fossi a

casa, e che colui che conosceva tutto di me, mio Padre, in verità, era solo

con me.

*Mentre asciugava dal mio viso le lacrime.* *Pose i pollici sui miei occhi*

ammonendomi di non piangere poiché si doveva essere sempre felici.

*Poi rise.*

lo non potevo parlare.

*Sedemmo entrambi in assoluto silenzio*,

per un tempo che mi sembrò lungo poi, sentii gradualmente scendere in me una

gran

pace. Allora ‘Abdu’I-Bahá

*ponendo la mano sul mio petto,*

disse che a parlare era il cuore.

*Improvvisamente, con un’altra risata, come assaporando una

gioia celestiale, Si alzò dalla sedia. Poi si volse*

*prendendomi sotto i gomiti*

* e mi strinse tra le braccia.*

*Che abbraccio! Non un semplice abbraccio. Le mie ossa scricchiolarono.*

*Mi baciò sulle guance,*

*pose il Suo braccio sulle mie spalle e mi guidò verso la porta.*

Questo fu tutto. Ma da quel momento la vita non è stata più la stessa.

9 – La conversazione
10 – La gestione creativa dei conflitti

H.C. Ives. Portals to Freedon-4 pp. 31-33

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