06 – Coinvolgimento o distacco?

Dieci incontri per apprendere una nuova arte

Libera sintesi dal Libro di Marianella Sclavi

Arte di ascoltare e mondi possibili: come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Pescara, Le vespe, 2000 (ristampato nel 2003 da Bruno Mondadori)

Sesto capitolo

Le emozioni, cosa sono, a cosa servono. Coinvolgimento o distacco?

Proviamo a fare questo esercizio.

Con la domanda “Che ore sono?”, comunica al tuo partner i seguenti diversi messaggi: 1 ) Sono in ritardo? 2) Perché sei così in ritar­do? 3) Sarebbe ora che te ne andassi. 4) Mio dio, che noia! 5) Per favo­re dimmi che ore sono.Commentiamo la prova e chi è riuscito bene provi a dire come ha fatto.

Il tono di voce rispecchia l’emozione o il sentimento.

Diamo una definizione di sentimento e di emozione.

L’emozione è una sensazione forte e di breve durata, il sentimento è una sensazione più continua nel tempo. Entrambi possono essere piacevoli o spiacevoli, ritenuti negativi o positivi.

La Sclavi chiama le emozioni “passi di danza” perché nel momento in cui si viene coinvolti in una emozione è come se iniziassimo a danzare seguendo un tempo ben preciso, che riconosciamo dal suo andamento.

C’è una musica a cui si ispirano i passi e questa musica sono i particolari, le circostanze, l’ambiente in cui si “danza”

Ora proviamo a fare questo esercizio:

1. Ricorda i momenti della tua vita nei quali hai provato più forte­mente sentimenti di rabbia, amore, sofferenza, gioia, odio, sorpresa, tristezza o paura.

2. Adesso ricostruisci nella tua mente le circostanze dettagliate e gli stimoli sensoriali che hanno provocato in te quelle emozioni. Procedi con calma, a partire dal mettere a fuoco i più piccoli dettagli sensoriali che ti ricordi.

(l’esercizio continua per gli aspiranti attori)

3. Dopo aver ricreato un’emozione, mettiti a lavorare su un altro ri­cordo ìn modo da sostituirla rapidamente con un’altra emozione. Alle­nati finché puoi passare da un’emozione ad altre tre nel giro di quindi­ci minuti.

Le emozioni sono segni-sensazioni che ci permettono di conoscere quel che avviene intorno a noi in modo non riducibile a concetti, ce ne danno l’esperienza che non può prescindere da un momento e da un luogo ben preciso.

Per questo per essere riattivate hanno bisogno del ricordo di un contesto, di particolari

ben precisi, che ci facciano “rivivere” la scena di quel determinato momento.

La risoluzione creativa dei conflitti, anche quelli interiori, non si fonda sul ragionamento , ma sull’immaginazione e l’immaginazione si basa sulla visualizzazione.

A dimostrazione di ciò vi si chiede di dimostrare  la seguente affermazione.

.

“Una mattina, esattamente al primo sorgere del sole, un monaco bud­dista iniziò a salire un’alta montagna. Il sentiero era molto stretto, non più di sessanta centimetri di larghezza, e saliva a spirale lungo tutta la montagna fino a raggiungere un tempio fulgente sulla cima. II monaco saliva ora a passo più spedito ora meno, spesso si fermava per riprende­re fiato o consumare della frutta secca che aveva portato con sé. Raggiunse il tempio poco prima del tramonto. Dopo parecchi giorni di di­giuno e meditazione iniziò il viaggio di ritorno, di nuovo esattamente al sorgere del sole. La discesa naturalmente fu più rapida, sebbene an­ch’essa punteggiata da numerose soste.

Dovete dimostrare che c’è un punto, lungo il sentiero, in cui il mona­co scendendo si viene a trovare esattamente alla stessa ora del giorno in cui sì trovava salendo.”

Avete cinque minuti di tempo,

Il puzzle consente di riflettere sulle modalità di pensiero che nel tenta­tivo di risolverlo hanno messo in atto. Hanno fatto ricorso a un pro­cesso basato sulla verbalizzazione o sull’immaginazione visiva? Hanno tentato delle soluzioni matematiche? Hanno tracciato dei grafici? Sono passati da una strategia all’altra o si sono impuntati su una sola? Il modo più semplice per risolvere il puzzle è visualizzare sovrapponen­doli i due tragitti del monaco in salita e discesa. Immaginate due mo­naci che al sorgere del sole partono uno dalla base della montagna e uno dalla vetta. Vedeteli salire l’uno e scendere l’altro; è chiaro che in-

dipendentemente dalla velocità e numero di soste a un certo punto del tragitto si troveranno a sbattere l’uno contro l’altro. Questo punto di collisione è il punto del sentiero e il momento della collisione è il mo­mento del giorno in cui il monaco scendendo si trova esattamente dov’era quando saliva.

Questo esercizio è molto efficace per rendersi conto che ci sono pro­blemi semplicemente non risolvibili, questioni non comprensibili con uno stile di pensiero basato fondamentalmente sulla verbalizzazione. Se ci affidiamo alle parole la questione si ingarbuglia in un modo in­credibile, non ne usciamo più.

Ritengo che in buona misura la comprensione dei messaggi emoziona­li richieda un salto analogo. Non è mai facile descrivere a parole i mo­vimenti di una danza, ma se non riusciamo a indurre l’interlocutore a visualizzarla, è impossibile. E allora parliamo di qualcosa di misterioso, di inafferrabile e lo chiamiamo: “emozioni”.

32 II puzzle è tratto dal libro di un professore della Stanford Universìty, James L. Adams. È intitolato Conceptual Blockbwting, Addison-Wesley Publishing Company, l’edizione originale è del 1974, la copia alla quale mi riferisco e una quarta edizione del 1986, pag. 4

Le emozioni e i sentimenti nella loro funzione di conoscenza sono uguali al dolore e al piacere fisico. Quando ci fa male una parte del corpo non dobbiamo solo prendere l’analgesico e tirare avanti facendo finta di niente. Dobbiamo fin che ci è possibile curare le cause del male.

La retorica del controllo ha la stessa efficacia di un analgesico, copre il male senza portare rimedio. A lungo andare si rischia l’incancrenirsi della malattia.

Invece dobbiamo accettare le nostre sensazioni, soprattutto quelle di disagio come un campanello di allarme: “Attenzione! Ti stai scontrando con un mondo diverso dal tuo!

Non avere un atteggiamento di difesa o di attacco, ma di ricerca, di esplorazione di qualcosa che per il solo fatto di esistere ha delle sue motivazioni”

Quindi le emozioni non vanno soffocate,  non dobbiamo essere “insensibili” e già questa parola ci fa capire come anche il senso comune attribuisce alle emozioni una validità conoscitiva, ma dobbiamo essere più sensibili.

La domanda a questo punto è: “ Ma devo essere distaccato da quanto mi succede intorno, come tutte le religioni predicano, o coinvolto?”

La risposta è : Dobbiamo essere sia coinvolti che distaccati nello stesso tempo.

Essere coinvolti significa non essere insensibili, essere distaccati significa renderci conto che esiste un problema da risolvere e che per risolvere questo problema non possiamo tener conto di un elemento solo, la nostra sensibilità, ma dobbiamo visualizzare tutti gli elementi in gioco, la sensibilità altrui, per esempio,  e quindi staccarci dall’elemento che ci è più vicino e che ci coinvolge, per considerare “dall’alto” noi stessi e tutta la situazione nel suo complesso.

Le emozioni sono anche il risultato di una educazione sociale. Basta considerare i diversi atteggiamenti dei vari popoli di fronte alla condizione della donna, ai sentimenti che scatenavano certi comportamenti ritenuti possibili in alcune società e sconvenienti in altre. Come a dire : le emozioni si imparano …….

E che le emozioni si imparano lo sanno bene gli antropologi che studiando i vari popoli si rendono conto di mondi possibili veramente diversi tra loro.

L’antropologa è una persona che per la natura del suo lavoro sa mettere in atto l’ascolto attivo e l’autoconsapevolezza emozionale.

Leggiamo allora questo episodio.

Lettura

Nell’estate del 1967 Mary Catherine Bateson era impegnata in una ricerca sul campo in un quartiere periferico di Manila. Un tardo po­meriggio, quando le strade si erano rianimate dopo la siesta, sì era fer­mata a chiaccherare con una sua vicina di casa, di nome Ana, quando questa ricevette la vìsita di una donna più anziana, Aling Binang, di ri­torno da un soggiorno nel proprio villaggio, nel retroterra. Ana aveva saputo della morte del figlio ventenne di Aling Binang e incominciò a farle domande in proposito. Aling Binang si mise a piangere, cionono­stante Ana continuò il suo interrogatorio sui particolari più intimi e delicati di quell’evento; Aling con le lacrime che le scorrevano sempre più copiose lungo il viso, continuò a rispondere, rievocando quei mo­menti e quelle scene.

Mary Catherine si tenne in disparte, evitando di interferire in questa penosa e imbarazzante conversazione che entram­be le donne sembravano desiderose di protrarre, ma dentro di sé si sen­tiva indignata per la mancanza di tatto dì Ana e profondamente di­spiaciuta per Aling Binang.

Al tempo stesso l’antropologa si rendeva conto che le sue reazioni e sentimenti erano in dissonanza con i sentimenti e le reazioni delle due protagoniste.

Nell’esame delle proprie emozioni si era resa conto di trovarsi in quel che noi abbiamo definito “scontro di cornici culturali”.

Ana rivolge ad Aling Binang domande sulla morte del figlio. Aling Bi­nang piange. Mary Catherine prova delle emozioni che la informano che sta interpretando (nel doppio senso dì “leggere” e di “reagire a”) queste domande come dei comportamenti sconvenienti e sconvolgenti, una inamissibile e crudele intrusione nella privacy altrui.

Ma una mol­teplicità di piccoli segnali stonano con questa sua interpretazìone della situazione.  Da un lato vede Ana infierire sulla povera Aling Binang la quale infatti piange sempre di più; dall’altro le due donne sono chiara­mente desiderose di protrarre questo tipo dì conversazione, nessuna delle loro reazioni Ìndica allarme/incredulità di fronte a comporta­menti reciproci crudeli e spiazzanti. Al contrario, si rimandano a vi­cenda una serie dì segnali di crescente comunanza. Le stesse lacrime di Aling Bìnang hanno questo senso, sono lacrime di sollievo, sfogo, rico­noscenza, conforto. Tutto questo nel New England, da cui proviene Mary Catherine, non sarebbe concepibile, se non nella ben definita cornice di una seduta terapeutica.

Gli atteggiamenti sia dì Ana che di Aling Binang non indicano che si stanno muovendo su territori ìnusuali e inesplorati, pericolosi, ma che quei comportamenti messi in atto fra due conoscenti nel terrazzino della casa di Ana, sono ritenuti del tutto ovvi e naturali.

Nella stessa misura in cui Mary Catherine decide di non ignorare, ma anzi di collezionare tutti i segnali inquietanti, “marginali e fasti­diosi” (le sue emozioni), sta preparandosi ad accogliere una bisocìazione, una doppia de­scrizione. Ha assunto l’atteggiamento di un’esploratrice di mondi possibili, di chi considera “il disagio come punto di partenza per nuove forme di comprensione”.

Il comportamento di Ana (o quello di Aling Binang che le da cor­da) non è “sbagliato” (anche se la nostra prima reazione ci porterebbe a giudicarlo tale), è al tempo stesso “insensato” (rispetto alle nostre cor­nici) e “sensato” (rispetto alle loro cornici di appartenenza, qualsiasi es­se siano).

In altre parole: l’antropologa si rende conto che la propria ri­provazione in quel contesto se espressa apertamente sarebbe stata inte­sa non come un’accusa di insensibilità, ma come segno di insensibilità da parte sua. “Questa americana vuole impedirci di esternare la nostra reciproca solidarietà e partecipazione al lutto. Vorrebbe che fossimo indifferenti e insensibili come loro.”

La radice dì questi malintesi non è dovuta a mancanza di informazioni sui comportamenti, ma sulle cornici, sulle reazioni alle reazioni alle reazioni reciproche.

Gregory Bateson ha dato un nome a quei segnali che andiamo a cercare o mettiamo in evidenza quando, in situazioni di ambivalenza, si sente la necessità di precisare in quale contesto si opera. Li ha chia­mati “segna contesto”. Alcuni esempi sono la stretta di mano dei pugili prima dell’incontro che sta ad indicare che è vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno “sportivamente”; oppure la cornice del palcosce­nico che indica che è vero che le persone che si muovono in quel con­testo si sposeranno, divorzieranno, daranno in escandescenze e quant’altro, ma stanno “solo” recitando. Oppure ancora lo studio dello psicoterapeuta dentro il quale le stesse domande che altrove verrebbero vissute come intrusioni nella privacy altrui, diventano legittime e ac­quistano un diverso significato.

Anche tutti i segni e segnali che Mary Catherine Bateson (nella ricostruzione fenomenologica che abbiamo fatto) va a cercare per verificare fino a che punto le proprie cornici siano o no condivise dalle protagoniste della conversazione ed eventualmente in base a quali altre cornici esse operi­no, sono dei segna contesto.

L’antropologa è consapevole che “gli stessi comportamenti” possono avere significati diversi a seconda del tipo dì messaggi non verbali ed emozionali che circolarmente li accompagna­no e dei retroterra culturali in cui si collocano.

Un unico episodio di dissonanza è già una base sufficiente per delle prime generalizzazioni (congetturali) sulle matrici percettive-valutati­ve che valgono nella cultura di origine di chi osserva, in quanto sulla base della propria esperienza Mary Catherine Bateson può già asserire: “Nel New England comportamenti simili in circostanze analoghe sarebbero tipi­camente interpretati in un modo diverso, opposto”.

Per ricostruire le matrici percettivo-valutative alle quali le due donne hanno attinto è necessario esplorare il loro più ampio retroterra culturale, collezionando una serie dì esperienze analoghe e cercando di capire come si connettono fra loro.

Ed è quello che Mary Catherine Bateson, come vedremo, fa.

Alcune settimane più tardi nello stesso vicinato ma in una zona che Mary Catherine Bateson non aveva frequentato, ci fu un decesso e la famiglia di cui era ospite la invitò ad andare con loro alla veglia funebre. Mary Catherine molto imbarazzata cercò di premunirsi chiedendo una quantità di informazioni su come la veglia era organizzata e come do­veva comportarsi. Seppe così che si sarebbe protratta fino a notte tarda e che tutti erano tenuti a dare un piccolo obolo di meno di un dollaro alla giovane donna rimasta orfana di madre.

L’antropologa nota l’ambiente: come e dove è disposta la salma, le lampade funerarie, l’abitazione, ecc.; poi l’annotazione dei comportamenti dei parenti e dei vicini, gli argomenti delle conversa­zioni. I giovani che giocano e si corteggiano nel cortile, proprio davan­ti alla porta di casa e il barbecue e i giochi d’azzardo allestiti nel cortile, il clima festoso e le risate chiassose che echeggiano dentro la camera mortuaria sovrapponendosi ai sospiri e alle lacrime.

Nota i suoi sentimenti. La sua riluttanza già a parte­cipare a questa veglia, ad intromettersi nel dolore di una famiglia che non aveva mai conosciuto; il suo imbarazzo quasi paralizzante nel por­gere l’obolo. Il senso di sconforto e spaesamento nel trovarsi in mezzo a gruppi di adolescenti impegnati in rumorosi giochi di parole e imita­zioni dei versi di animali tipo “Nella Vecchia Fattoria” a pochi metri dal cadavere e dalla famiglia in lutto. Poiché era stata informata, sapeva come comportarsi, ma i suoi sentimenti rimanevano in contrasto con i suoi comportamenti.

I sentimenti, che corrispondono a modi abituali di inquadrare” gli eventi, non sono cambiabili a comando.

“Per un’americana con un retroterra protestante e anglosassone come il mio – afferma Mary Catherine Bateson — la morte esige silenzio e decoro, il rispetto della privacy, delle persone in lutto e un certo distacco dalle preoccupazioni più materiali della vita quotidiana. Più tardi compresi che la mia presenza aveva rappresentato un onore straordinario reso al­la defunta. Che i giochi e schiamazzi erano considerati necessari per evitare il senso dì solitudine ed efficaci strumenti di conforto, in quan­to il conforto è inconcepibile senza convivialìtà. Inoltre le veglie sono tradizionalmente considerate delle occasioni particolarmente adatte ai corteggiamenti.”

I materiali per le bisociazìoni sono piuttosto evi­denti: da un lato la partecipazione al lutto si esprime col silenzio e de­coro, dall’altro con schiamazzi e giochi. Da un lato la visita di un’estra­nea è vista come un’intrusione, dall’altro come grande onore. Da un lato la morte e i corteggiamenti vanno tenuti separati, dall’altro è giu­sto che coesistano e si sovrappongano. Su ognuno di questi comporta­menti potremmo immaginare il fiorire di malintesi interculturali. Incominciamo anche a vedere dei fili che connettono i due episodi fra loro: “II conforto è inconcepibile senza convivialìtà; la morte non è un evento privato, ma pubblico, che va celebrato mostrando che la vita continua”,

Un’obiezione che viene spesso rivolta alla generalizzazione etnogra­fica è che non si può passare da affermazioni del tipo “Ecco come mi sento e come tenderei a reagire in queste circostanze” ad altre più gene­rali del tipo “Ecco come si sentirebbe e come reagirebbe un’americana con un retroterra protestante e anglosassone”

Questa critica è dovuta ad un equivoco che la difficoltà ad esprimere a parole la dissonanza fra cornici tende a perpetuare. Quando Mary Catherine afferma: “Per un’americana con un retroterra ecc…” non in­tende sostenere che ogni americana di fronte agli schiamazzi della ve­glia funebre della periferia di Manila si comporterebbe nello stesso modo. Infatti, alcune potrebbero reagire con sdegno (chiedendo di “ri­spettare” in silenzio il dolore dei parenti), altre chiudendosi in un timi­do riserbo, altre ancora (certamente un’esigua minoranza) cercando di unirsi ai giochi e canti. La questione non riguarda Ì comportamenti, ma le cornici. Una persona cresciuta in New England se decide di unirsi ai giochi e canti tipo “Nella Vecchia Fattoria” deve comunque estire un delicato processo di uscita dalle proprie cornici di origine. E deve cercare di gestirlo nel senso di un arricchimento, una maggiore apertura del ventaglio di scelte e non nel senso di uno sradicamento, può farlo in modo patologico oppure creativo, come è successo a Mary Catherine Bateson nel seguente episodio. Ma farlo in modo creativo richiede au­toconsapevolezza emozionale.

Mesi più tardi, sempre a Manila, sono l’antropologa e suo marito ad essere colpiti da un lutto. Il loro bambino nato prematuro, muore. In questa dolorosissima circostanza, sia Mary Catherine che suo mari­to si trovarono a dover gestire sìa le condoglianze dei colleghi america­ni del marito che degli amici filippini dell’antropologa.

I primi si pre­sentavano scuotendo la testa con aria addolorata, privi di parole, si li­mitavano a una forte stretta di mano e si ritiravano rapidamente per ri­spettare la privacy del loro amico e della sua consorte.

I filippini arriva­vano con aria enfaticamente cordiale: “È così triste che il vostro bam­bino sìa morto. Lo avete visto? A chi assomigliava? L’avete battezzato? Quanto pesava? Quanto è durato il parto?” ecc… In questo caso Mary Catherine si è trovata in un dilemma: non poteva né voleva impedire agli amici filippini di comportarsi secondo Ì loro costumi e d’altra parte non voleva neppure reagire al dolore che queste domande le evocavano con un atteggiamento di rigido autocontrollo che sarebbe stato interpretato come insensibilità. Grazie alla sua prece­dente esperienza sul campo, ricorda la scena di Ana e Alìng Binang,

e questo ricordo le porege la soluzione del conflitto.

Mentre imbarazzata rispondeva con fatica a queste domande, si lasciò andare a piangere a calde lacrime e trovò che la spontanea e non allarmata comprensione dei suoi visitatori, le recava un gran conforto. A posteriori si accorse, per dirlo con le parole del gioco dei nove punti, che invece di accontentarsi di collegare fra loro solo sei o sette o otto punti, cosi facendo usciva dal quadrato e li collegava tutti e nove.

 

 

Proviamo a fare questo esercizio.

Con la domanda “Che ore sono?”, comunica al tuo partner i seguenti diversi messaggi: 1 ) Sono in ritardo? 2) Perché sei così in ritar­do? 3) Sarebbe ora che te ne andassi. 4) Mio dio, che noia! 5) Per favo­re dimmi che ore sono.

Commentiamo la prova e chi è riuscito bene provi a dire come ha fatto.

Il tono di voce rispecchia l’emozione o il sentimento.

Diamo una definizione di sentimento e di emozione.

L’emozione è una sensazione forte e di breve durata, il sentimento è una sensazione più continua nel tempo. Entrambi possono essere piacevoli o spiacevoli, ritenuti negativi o positivi.

La Sclavi chiama le emozioni “passi di danza” perché nel momento in cui si viene coinvolti in una emozione è come se iniziassimo a danzare seguendo un tempo ben preciso, che riconosciamo dal suo andamento.

C’è una musica a cui si ispirano i passi e questa musica sono i particolari, le circostanze, l’ambiente in cui si “danza”

Ora proviamo a fare questo esercizio:

1. Ricorda i momenti della tua vita nei quali hai provato più forte­mente sentimenti di rabbia, amore, sofferenza, gioia, odio, sorpresa, tristezza o paura.

2. Adesso ricostruisci nella tua mente le circostanze dettagliate e gli stimoli sensoriali che hanno provocato in te quelle emozioni. Procedi con calma, a partire dal mettere a fuoco i più piccoli dettagli sensoriali che ti ricordi.

(l’esercizio continua per gli aspiranti attori)

3. Dopo aver ricreato un’emozione, mettiti a lavorare su un altro ri­cordo ìn modo da sostituirla rapidamente con un’altra emozione. Alle­nati finché puoi passare da un’emozione ad altre tre nel giro di quindi­ci minuti.

Le emozioni sono segni-sensazioni che ci permettono di conoscere quel che avviene intorno a noi in modo non riducibile a concetti, ce ne danno l’esperienza che non può prescindere da un momento e da un luogo ben preciso.

Per questo per essere riattivate hanno bisogno del ricordo di un contesto, di particolari

ben precisi, che ci facciano “rivivere” la scena di quel determinato momento.

La risoluzione creativa dei conflitti, anche quelli interiori, non si fonda sul ragionamento , ma sull’immaginazione e l’immaginazione si basa sulla visualizzazione.

A dimostrazione di ciò vi si chiede di dimostrare  la seguente affermazione.

.

“Una mattina, esattamente al primo sorgere del sole, un monaco bud­dista iniziò a salire un’alta montagna. Il sentiero era molto stretto, non più di sessanta centimetri di larghezza, e saliva a spirale lungo tutta la montagna fino a raggiungere un tempio fulgente sulla cima. II monaco saliva ora a passo più spedito ora meno, spesso si fermava per riprende­re fiato o consumare della frutta secca che aveva portato con sé. Raggiunse il tempio poco prima del tramonto. Dopo parecchi giorni di di­giuno e meditazione iniziò il viaggio di ritorno, di nuovo esattamente al sorgere del sole. La discesa naturalmente fu più rapida, sebbene an­ch’essa punteggiata da numerose soste.

Dovete dimostrare che c’è un punto, lungo il sentiero, in cui il mona­co scendendo si viene a trovare esattamente alla stessa ora del giorno in cui sì trovava salendo.”

Avete cinque minuti di tempo,

Il puzzle consente di riflettere sulle modalità di pensiero che nel tenta­tivo di risolverlo hanno messo in atto. Hanno fatto ricorso a un pro­cesso basato sulla verbalizzazione o sull’immaginazione visiva? Hanno tentato delle soluzioni matematiche? Hanno tracciato dei grafici? Sono passati da una strategia all’altra o si sono impuntati su una sola? Il modo più semplice per risolvere il puzzle è visualizzare sovrapponen­doli i due tragitti del monaco in salita e discesa. Immaginate due mo­naci che al sorgere del sole partono uno dalla base della montagna e uno dalla vetta. Vedeteli salire l’uno e scendere l’altro; è chiaro che in-

dipendentemente dalla velocità e numero di soste a un certo punto del tragitto si troveranno a sbattere l’uno contro l’altro. Questo punto di collisione è il punto del sentiero e il momento della collisione è il mo­mento del giorno in cui il monaco scendendo si trova esattamente dov’era quando saliva.

Questo esercizio è molto efficace per rendersi conto che ci sono pro­blemi semplicemente non risolvibili, questioni non comprensibili con uno stile di pensiero basato fondamentalmente sulla verbalizzazione. Se ci affidiamo alle parole la questione si ingarbuglia in un modo in­credibile, non ne usciamo più.

Ritengo che in buona misura la comprensione dei messaggi emoziona­li richieda un salto analogo. Non è mai facile descrivere a parole i mo­vimenti di una danza, ma se non riusciamo a indurre l’interlocutore a visualizzarla, è impossibile. E allora parliamo di qualcosa di misterioso, di inafferrabile e lo chiamiamo: “emozioni”.

32 II puzzle è tratto dal libro di un professore della Stanford Universìty, James L. Adams. È intitolato Conceptual Blockbwting, Addison-Wesley Publishing Company, l’edizione originale è del 1974, la copia alla quale mi riferisco e una quarta edizione del 1986, pag. 4

Le emozioni e i sentimenti nella loro funzione di conoscenza sono uguali al dolore e al piacere fisico. Quando ci fa male una parte del corpo non dobbiamo solo prendere l’analgesico e tirare avanti facendo finta di niente. Dobbiamo fin che ci è possibile curare le cause del male.

La retorica del controllo ha la stessa efficacia di un analgesico, copre il male senza portare rimedio. A lungo andare si rischia l’incancrenirsi della malattia.

Invece dobbiamo accettare le nostre sensazioni, soprattutto quelle di disagio come un campanello di allarme: “Attenzione! Ti stai scontrando con un mondo diverso dal tuo!

Non avere un atteggiamento di difesa o di attacco, ma di ricerca, di esplorazione di qualcosa che per il solo fatto di esistere ha delle sue motivazioni”

Quindi le emozioni non vanno soffocate,  non dobbiamo essere “insensibili” e già questa parola ci fa capire come anche il senso comune attribuisce alle emozioni una validità conoscitiva, ma dobbiamo essere più sensibili.

La domanda a questo punto è: “ Ma devo essere distaccato da quanto mi succede intorno, come tutte le religioni predicano, o coinvolto?”

La risposta è : Dobbiamo essere sia coinvolti che distaccati nello stesso tempo.

Essere coinvolti significa non essere insensibili, essere distaccati significa renderci conto che esiste un problema da risolvere e che per risolvere questo problema non possiamo tener conto di un elemento solo, la nostra sensibilità, ma dobbiamo visualizzare tutti gli elementi in gioco, la sensibilità altrui, per esempio,  e quindi staccarci dall’elemento che ci è più vicino e che ci coinvolge, per considerare “dall’alto” noi stessi e tutta la situazione nel suo complesso.

Le emozioni sono anche il risultato di una educazione sociale. Basta considerare i diversi atteggiamenti dei vari popoli di fronte alla condizione della donna, ai sentimenti che scatenavano certi comportamenti ritenuti possibili in alcune società e sconvenienti in altre. Come a dire : le emozioni si imparano …….

E che le emozioni si imparano lo sanno bene gli antropologi che studiando i vari popoli si rendono conto di mondi possibili veramente diversi tra loro.

L’antropologa è una persona che per la natura del suo lavoro sa mettere in atto l’ascolto attivo e l’autoconsapevolezza emozionale.

Leggiamo allora questo episodio.

Lettura

Nell’estate del 1967 Mary Catherine Bateson era impegnata in una ricerca sul campo in un quartiere periferico di Manila. Un tardo po­meriggio, quando le strade si erano rianimate dopo la siesta, sì era fer­mata a chiaccherare con una sua vicina di casa, di nome Ana, quando questa ricevette la vìsita di una donna più anziana, Aling Binang, di ri­torno da un soggiorno nel proprio villaggio, nel retroterra. Ana aveva saputo della morte del figlio ventenne di Aling Binang e incominciò a farle domande in proposito. Aling Binang si mise a piangere, cionono­stante Ana continuò il suo interrogatorio sui particolari più intimi e delicati di quell’evento; Aling con le lacrime che le scorrevano sempre più copiose lungo il viso, continuò a rispondere, rievocando quei mo­menti e quelle scene.

Mary Catherine si tenne in disparte, evitando di interferire in questa penosa e imbarazzante conversazione che entram­be le donne sembravano desiderose di protrarre, ma dentro di sé si sen­tiva indignata per la mancanza di tatto dì Ana e profondamente di­spiaciuta per Aling Binang.

Al tempo stesso l’antropologa si rendeva conto che le sue reazioni e sentimenti erano in dissonanza con i sentimenti e le reazioni delle due protagoniste.

Nell’esame delle proprie emozioni si era resa conto di trovarsi in quel che noi abbiamo definito “scontro di cornici culturali”.

Ana rivolge ad Aling Binang domande sulla morte del figlio. Aling Bi­nang piange. Mary Catherine prova delle emozioni che la informano che sta interpretando (nel doppio senso dì “leggere” e di “reagire a”) queste domande come dei comportamenti sconvenienti e sconvolgenti, una inamissibile e crudele intrusione nella privacy altrui.

Ma una mol­teplicità di piccoli segnali stonano con questa sua interpretazìone della situazione.  Da un lato vede Ana infierire sulla povera Aling Binang la quale infatti piange sempre di più; dall’altro le due donne sono chiara­mente desiderose di protrarre questo tipo dì conversazione, nessuna delle loro reazioni Ìndica allarme/incredulità di fronte a comporta­menti reciproci crudeli e spiazzanti. Al contrario, si rimandano a vi­cenda una serie dì segnali di crescente comunanza. Le stesse lacrime di Aling Bìnang hanno questo senso, sono lacrime di sollievo, sfogo, rico­noscenza, conforto. Tutto questo nel New England, da cui proviene Mary Catherine, non sarebbe concepibile, se non nella ben definita cornice di una seduta terapeutica.

Gli atteggiamenti sia dì Ana che di Aling Binang non indicano che si stanno muovendo su territori ìnusuali e inesplorati, pericolosi, ma che quei comportamenti messi in atto fra due conoscenti nel terrazzino della casa di Ana, sono ritenuti del tutto ovvi e naturali.

Nella stessa misura in cui Mary Catherine decide di non ignorare, ma anzi di collezionare tutti i segnali inquietanti, “marginali e fasti­diosi” (le sue emozioni), sta preparandosi ad accogliere una bisocìazione, una doppia de­scrizione. Ha assunto l’atteggiamento di un’esploratrice di mondi possibili, di chi considera “il disagio come punto di partenza per nuove forme di comprensione”.

Il comportamento di Ana (o quello di Aling Binang che le da cor­da) non è “sbagliato” (anche se la nostra prima reazione ci porterebbe a giudicarlo tale), è al tempo stesso “insensato” (rispetto alle nostre cor­nici) e “sensato” (rispetto alle loro cornici di appartenenza, qualsiasi es­se siano).

In altre parole: l’antropologa si rende conto che la propria ri­provazione in quel contesto se espressa apertamente sarebbe stata inte­sa non come un’accusa di insensibilità, ma come segno di insensibilità da parte sua. “Questa americana vuole impedirci di esternare la nostra reciproca solidarietà e partecipazione al lutto. Vorrebbe che fossimo indifferenti e insensibili come loro.”

La radice dì questi malintesi non è dovuta a mancanza di informazioni sui comportamenti, ma sulle cornici, sulle reazioni alle reazioni alle reazioni reciproche.

Gregory Bateson ha dato un nome a quei segnali che andiamo a cercare o mettiamo in evidenza quando, in situazioni di ambivalenza, si sente la necessità di precisare in quale contesto si opera. Li ha chia­mati “segna contesto”. Alcuni esempi sono la stretta di mano dei pugili prima dell’incontro che sta ad indicare che è vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno “sportivamente”; oppure la cornice del palcosce­nico che indica che è vero che le persone che si muovono in quel con­testo si sposeranno, divorzieranno, daranno in escandescenze e quant’altro, ma stanno “solo” recitando. Oppure ancora lo studio dello psicoterapeuta dentro il quale le stesse domande che altrove verrebbero vissute come intrusioni nella privacy altrui, diventano legittime e ac­quistano un diverso significato.

Anche tutti i segni e segnali che Mary Catherine Bateson (nella ricostruzione fenomenologica che abbiamo fatto) va a cercare per verificare fino a che punto le proprie cornici siano o no condivise dalle protagoniste della conversazione ed eventualmente in base a quali altre cornici esse operi­no, sono dei segna contesto.

L’antropologa è consapevole che “gli stessi comportamenti” possono avere significati diversi a seconda del tipo dì messaggi non verbali ed emozionali che circolarmente li accompagna­no e dei retroterra culturali in cui si collocano.

Un unico episodio di dissonanza è già una base sufficiente per delle prime generalizzazioni (congetturali) sulle matrici percettive-valutati­ve che valgono nella cultura di origine di chi osserva, in quanto sulla base della propria esperienza Mary Catherine Bateson può già asserire: “Nel New England comportamenti simili in circostanze analoghe sarebbero tipi­camente interpretati in un modo diverso, opposto”.

Per ricostruire le matrici percettivo-valutative alle quali le due donne hanno attinto è necessario esplorare il loro più ampio retroterra culturale, collezionando una serie dì esperienze analoghe e cercando di capire come si connettono fra loro.

Ed è quello che Mary Catherine Bateson, come vedremo, fa.

Alcune settimane più tardi nello stesso vicinato ma in una zona che Mary Catherine Bateson non aveva frequentato, ci fu un decesso e la famiglia di cui era ospite la invitò ad andare con loro alla veglia funebre. Mary Catherine molto imbarazzata cercò di premunirsi chiedendo una quantità di informazioni su come la veglia era organizzata e come do­veva comportarsi. Seppe così che si sarebbe protratta fino a notte tarda e che tutti erano tenuti a dare un piccolo obolo di meno di un dollaro alla giovane donna rimasta orfana di madre.

L’antropologa nota l’ambiente: come e dove è disposta la salma, le lampade funerarie, l’abitazione, ecc.; poi l’annotazione dei comportamenti dei parenti e dei vicini, gli argomenti delle conversa­zioni. I giovani che giocano e si corteggiano nel cortile, proprio davan­ti alla porta di casa e il barbecue e i giochi d’azzardo allestiti nel cortile, il clima festoso e le risate chiassose che echeggiano dentro la camera mortuaria sovrapponendosi ai sospiri e alle lacrime.

Nota i suoi sentimenti. La sua riluttanza già a parte­cipare a questa veglia, ad intromettersi nel dolore di una famiglia che non aveva mai conosciuto; il suo imbarazzo quasi paralizzante nel por­gere l’obolo. Il senso di sconforto e spaesamento nel trovarsi in mezzo a gruppi di adolescenti impegnati in rumorosi giochi di parole e imita­zioni dei versi di animali tipo “Nella Vecchia Fattoria” a pochi metri dal cadavere e dalla famiglia in lutto. Poiché era stata informata, sapeva come comportarsi, ma i suoi sentimenti rimanevano in contrasto con i suoi comportamenti.

I sentimenti, che corrispondono a modi abituali di inquadrare” gli eventi, non sono cambiabili a comando.

“Per un’americana con un retroterra protestante e anglosassone come il mio – afferma Mary Catherine Bateson — la morte esige silenzio e decoro, il rispetto della privacy, delle persone in lutto e un certo distacco dalle preoccupazioni più materiali della vita quotidiana. Più tardi compresi che la mia presenza aveva rappresentato un onore straordinario reso al­la defunta. Che i giochi e schiamazzi erano considerati necessari per evitare il senso dì solitudine ed efficaci strumenti di conforto, in quan­to il conforto è inconcepibile senza convivialìtà. Inoltre le veglie sono tradizionalmente considerate delle occasioni particolarmente adatte ai corteggiamenti.”

I materiali per le bisociazìoni sono piuttosto evi­denti: da un lato la partecipazione al lutto si esprime col silenzio e de­coro, dall’altro con schiamazzi e giochi. Da un lato la visita di un’estra­nea è vista come un’intrusione, dall’altro come grande onore. Da un lato la morte e i corteggiamenti vanno tenuti separati, dall’altro è giu­sto che coesistano e si sovrappongano. Su ognuno di questi comporta­menti potremmo immaginare il fiorire di malintesi interculturali. Incominciamo anche a vedere dei fili che connettono i due episodi fra loro: “II conforto è inconcepibile senza convivialìtà; la morte non è un evento privato, ma pubblico, che va celebrato mostrando che la vita continua”,

Un’obiezione che viene spesso rivolta alla generalizzazione etnogra­fica è che non si può passare da affermazioni del tipo “Ecco come mi sento e come tenderei a reagire in queste circostanze” ad altre più gene­rali del tipo “Ecco come si sentirebbe e come reagirebbe un’americana con un retroterra protestante e anglosassone”

Questa critica è dovuta ad un equivoco che la difficoltà ad esprimere a parole la dissonanza fra cornici tende a perpetuare. Quando Mary Catherine afferma: “Per un’americana con un retroterra ecc…” non in­tende sostenere che ogni americana di fronte agli schiamazzi della ve­glia funebre della periferia di Manila si comporterebbe nello stesso modo. Infatti, alcune potrebbero reagire con sdegno (chiedendo di “ri­spettare” in silenzio il dolore dei parenti), altre chiudendosi in un timi­do riserbo, altre ancora (certamente un’esigua minoranza) cercando di unirsi ai giochi e canti. La questione non riguarda Ì comportamenti, ma le cornici. Una persona cresciuta in New England se decide di unirsi ai giochi e canti tipo “Nella Vecchia Fattoria” deve comunque estire un delicato processo di uscita dalle proprie cornici di origine. E deve cercare di gestirlo nel senso di un arricchimento, una maggiore apertura del ventaglio di scelte e non nel senso di uno sradicamento, può farlo in modo patologico oppure creativo, come è successo a Mary Catherine Bateson nel seguente episodio. Ma farlo in modo creativo richiede au­toconsapevolezza emozionale.

Mesi più tardi, sempre a Manila, sono l’antropologa e suo marito ad essere colpiti da un lutto. Il loro bambino nato prematuro, muore. In questa dolorosissima circostanza, sia Mary Catherine che suo mari­to si trovarono a dover gestire sìa le condoglianze dei colleghi america­ni del marito che degli amici filippini dell’antropologa.

I primi si pre­sentavano scuotendo la testa con aria addolorata, privi di parole, si li­mitavano a una forte stretta di mano e si ritiravano rapidamente per ri­spettare la privacy del loro amico e della sua consorte.

I filippini arriva­vano con aria enfaticamente cordiale: “È così triste che il vostro bam­bino sìa morto. Lo avete visto? A chi assomigliava? L’avete battezzato? Quanto pesava? Quanto è durato il parto?” ecc… In questo caso Mary Catherine si è trovata in un dilemma: non poteva né voleva impedire agli amici filippini di comportarsi secondo Ì loro costumi e d’altra parte non voleva neppure reagire al dolore che queste domande le evocavano con un atteggiamento di rigido autocontrollo che sarebbe stato interpretato come insensibilità. Grazie alla sua prece­dente esperienza sul campo, ricorda la scena di Ana e Alìng Binang,

e questo ricordo le porege la soluzione del conflitto.

Mentre imbarazzata rispondeva con fatica a queste domande, si lasciò andare a piangere a calde lacrime e trovò che la spontanea e non allarmata comprensione dei suoi visitatori, le recava un gran conforto. A posteriori si accorse, per dirlo con le parole del gioco dei nove punti, che invece di accontentarsi di collegare fra loro solo sei o sette o otto punti, cosi facendo usciva dal quadrato e li collegava tutti e nove.

 

 

Proviamo a fare questo esercizio.

Con la domanda “Che ore sono?”, comunica al tuo partner i seguenti diversi messaggi: 1 ) Sono in ritardo? 2) Perché sei così in ritar­do? 3) Sarebbe ora che te ne andassi. 4) Mio dio, che noia! 5) Per favo­re dimmi che ore sono.

Commentiamo la prova e chi è riuscito bene provi a dire come ha fatto.

Il tono di voce rispecchia l’emozione o il sentimento.

Diamo una definizione di sentimento e di emozione.

L’emozione è una sensazione forte e di breve durata, il sentimento è una sensazione più continua nel tempo. Entrambi possono essere piacevoli o spiacevoli, ritenuti negativi o positivi.

La Sclavi chiama le emozioni “passi di danza” perché nel momento in cui si viene coinvolti in una emozione è come se iniziassimo a danzare seguendo un tempo ben preciso, che riconosciamo dal suo andamento.

C’è una musica a cui si ispirano i passi e questa musica sono i particolari, le circostanze, l’ambiente in cui si “danza”

Ora proviamo a fare questo esercizio:

1. Ricorda i momenti della tua vita nei quali hai provato più forte­mente sentimenti di rabbia, amore, sofferenza, gioia, odio, sorpresa, tristezza o paura.

2. Adesso ricostruisci nella tua mente le circostanze dettagliate e gli stimoli sensoriali che hanno provocato in te quelle emozioni. Procedi con calma, a partire dal mettere a fuoco i più piccoli dettagli sensoriali che ti ricordi.

(l’esercizio continua per gli aspiranti attori)

3. Dopo aver ricreato un’emozione, mettiti a lavorare su un altro ri­cordo ìn modo da sostituirla rapidamente con un’altra emozione. Alle­nati finché puoi passare da un’emozione ad altre tre nel giro di quindi­ci minuti.

Le emozioni sono segni-sensazioni che ci permettono di conoscere quel che avviene intorno a noi in modo non riducibile a concetti, ce ne danno l’esperienza che non può prescindere da un momento e da un luogo ben preciso.

Per questo per essere riattivate hanno bisogno del ricordo di un contesto, di particolari

ben precisi, che ci facciano “rivivere” la scena di quel determinato momento.

La risoluzione creativa dei conflitti, anche quelli interiori, non si fonda sul ragionamento , ma sull’immaginazione e l’immaginazione si basa sulla visualizzazione.

A dimostrazione di ciò vi si chiede di dimostrare  la seguente affermazione.

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“Una mattina, esattamente al primo sorgere del sole, un monaco bud­dista iniziò a salire un’alta montagna. Il sentiero era molto stretto, non più di sessanta centimetri di larghezza, e saliva a spirale lungo tutta la montagna fino a raggiungere un tempio fulgente sulla cima. II monaco saliva ora a passo più spedito ora meno, spesso si fermava per riprende­re fiato o consumare della frutta secca che aveva portato con sé. Raggiunse il tempio poco prima del tramonto. Dopo parecchi giorni di di­giuno e meditazione iniziò il viaggio di ritorno, di nuovo esattamente al sorgere del sole. La discesa naturalmente fu più rapida, sebbene an­ch’essa punteggiata da numerose soste.

Dovete dimostrare che c’è un punto, lungo il sentiero, in cui il mona­co scendendo si viene a trovare esattamente alla stessa ora del giorno in cui sì trovava salendo.”

Avete cinque minuti di tempo,

Il puzzle consente di riflettere sulle modalità di pensiero che nel tenta­tivo di risolverlo hanno messo in atto. Hanno fatto ricorso a un pro­cesso basato sulla verbalizzazione o sull’immaginazione visiva? Hanno tentato delle soluzioni matematiche? Hanno tracciato dei grafici? Sono passati da una strategia all’altra o si sono impuntati su una sola? Il modo più semplice per risolvere il puzzle è visualizzare sovrapponen­doli i due tragitti del monaco in salita e discesa. Immaginate due mo­naci che al sorgere del sole partono uno dalla base della montagna e uno dalla vetta. Vedeteli salire l’uno e scendere l’altro; è chiaro che in-

dipendentemente dalla velocità e numero di soste a un certo punto del tragitto si troveranno a sbattere l’uno contro l’altro. Questo punto di collisione è il punto del sentiero e il momento della collisione è il mo­mento del giorno in cui il monaco scendendo si trova esattamente dov’era quando saliva.

Questo esercizio è molto efficace per rendersi conto che ci sono pro­blemi semplicemente non risolvibili, questioni non comprensibili con uno stile di pensiero basato fondamentalmente sulla verbalizzazione. Se ci affidiamo alle parole la questione si ingarbuglia in un modo in­credibile, non ne usciamo più.

Ritengo che in buona misura la comprensione dei messaggi emoziona­li richieda un salto analogo. Non è mai facile descrivere a parole i mo­vimenti di una danza, ma se non riusciamo a indurre l’interlocutore a visualizzarla, è impossibile. E allora parliamo di qualcosa di misterioso, di inafferrabile e lo chiamiamo: “emozioni”.

32 II puzzle è tratto dal libro di un professore della Stanford Universìty, James L. Adams. È intitolato Conceptual Blockbwting, Addison-Wesley Publishing Company, l’edizione originale è del 1974, la copia alla quale mi riferisco e una quarta edizione del 1986, pag. 4

Le emozioni e i sentimenti nella loro funzione di conoscenza sono uguali al dolore e al piacere fisico. Quando ci fa male una parte del corpo non dobbiamo solo prendere l’analgesico e tirare avanti facendo finta di niente. Dobbiamo fin che ci è possibile curare le cause del male.

La retorica del controllo ha la stessa efficacia di un analgesico, copre il male senza portare rimedio. A lungo andare si rischia l’incancrenirsi della malattia.

Invece dobbiamo accettare le nostre sensazioni, soprattutto quelle di disagio come un campanello di allarme: “Attenzione! Ti stai scontrando con un mondo diverso dal tuo!

Non avere un atteggiamento di difesa o di attacco, ma di ricerca, di esplorazione di qualcosa che per il solo fatto di esistere ha delle sue motivazioni”

Quindi le emozioni non vanno soffocate,  non dobbiamo essere “insensibili” e già questa parola ci fa capire come anche il senso comune attribuisce alle emozioni una validità conoscitiva, ma dobbiamo essere più sensibili.

La domanda a questo punto è: “ Ma devo essere distaccato da quanto mi succede intorno, come tutte le religioni predicano, o coinvolto?”

La risposta è : Dobbiamo essere sia coinvolti che distaccati nello stesso tempo.

Essere coinvolti significa non essere insensibili, essere distaccati significa renderci conto che esiste un problema da risolvere e che per risolvere questo problema non possiamo tener conto di un elemento solo, la nostra sensibilità, ma dobbiamo visualizzare tutti gli elementi in gioco, la sensibilità altrui, per esempio,  e quindi staccarci dall’elemento che ci è più vicino e che ci coinvolge, per considerare “dall’alto” noi stessi e tutta la situazione nel suo complesso.

Le emozioni sono anche il risultato di una educazione sociale. Basta considerare i diversi atteggiamenti dei vari popoli di fronte alla condizione della donna, ai sentimenti che scatenavano certi comportamenti ritenuti possibili in alcune società e sconvenienti in altre. Come a dire : le emozioni si imparano …….

E che le emozioni si imparano lo sanno bene gli antropologi che studiando i vari popoli si rendono conto di mondi possibili veramente diversi tra loro.

L’antropologa è una persona che per la natura del suo lavoro sa mettere in atto l’ascolto attivo e l’autoconsapevolezza emozionale.

Leggiamo allora questo episodio.

Lettura

Nell’estate del 1967 Mary Catherine Bateson era impegnata in una ricerca sul campo in un quartiere periferico di Manila. Un tardo po­meriggio, quando le strade si erano rianimate dopo la siesta, sì era fer­mata a chiaccherare con una sua vicina di casa, di nome Ana, quando questa ricevette la vìsita di una donna più anziana, Aling Binang, di ri­torno da un soggiorno nel proprio villaggio, nel retroterra. Ana aveva saputo della morte del figlio ventenne di Aling Binang e incominciò a farle domande in proposito. Aling Binang si mise a piangere, cionono­stante Ana continuò il suo interrogatorio sui particolari più intimi e delicati di quell’evento; Aling con le lacrime che le scorrevano sempre più copiose lungo il viso, continuò a rispondere, rievocando quei mo­menti e quelle scene.

Mary Catherine si tenne in disparte, evitando di interferire in questa penosa e imbarazzante conversazione che entram­be le donne sembravano desiderose di protrarre, ma dentro di sé si sen­tiva indignata per la mancanza di tatto dì Ana e profondamente di­spiaciuta per Aling Binang.

Al tempo stesso l’antropologa si rendeva conto che le sue reazioni e sentimenti erano in dissonanza con i sentimenti e le reazioni delle due protagoniste.

Nell’esame delle proprie emozioni si era resa conto di trovarsi in quel che noi abbiamo definito “scontro di cornici culturali”.

Ana rivolge ad Aling Binang domande sulla morte del figlio. Aling Bi­nang piange. Mary Catherine prova delle emozioni che la informano che sta interpretando (nel doppio senso dì “leggere” e di “reagire a”) queste domande come dei comportamenti sconvenienti e sconvolgenti, una inamissibile e crudele intrusione nella privacy altrui.

Ma una mol­teplicità di piccoli segnali stonano con questa sua interpretazìone della situazione.  Da un lato vede Ana infierire sulla povera Aling Binang la quale infatti piange sempre di più; dall’altro le due donne sono chiara­mente desiderose di protrarre questo tipo dì conversazione, nessuna delle loro reazioni Ìndica allarme/incredulità di fronte a comporta­menti reciproci crudeli e spiazzanti. Al contrario, si rimandano a vi­cenda una serie dì segnali di crescente comunanza. Le stesse lacrime di Aling Bìnang hanno questo senso, sono lacrime di sollievo, sfogo, rico­noscenza, conforto. Tutto questo nel New England, da cui proviene Mary Catherine, non sarebbe concepibile, se non nella ben definita cornice di una seduta terapeutica.

Gli atteggiamenti sia dì Ana che di Aling Binang non indicano che si stanno muovendo su territori ìnusuali e inesplorati, pericolosi, ma che quei comportamenti messi in atto fra due conoscenti nel terrazzino della casa di Ana, sono ritenuti del tutto ovvi e naturali.

Nella stessa misura in cui Mary Catherine decide di non ignorare, ma anzi di collezionare tutti i segnali inquietanti, “marginali e fasti­diosi” (le sue emozioni), sta preparandosi ad accogliere una bisocìazione, una doppia de­scrizione. Ha assunto l’atteggiamento di un’esploratrice di mondi possibili, di chi considera “il disagio come punto di partenza per nuove forme di comprensione”.

Il comportamento di Ana (o quello di Aling Binang che le da cor­da) non è “sbagliato” (anche se la nostra prima reazione ci porterebbe a giudicarlo tale), è al tempo stesso “insensato” (rispetto alle nostre cor­nici) e “sensato” (rispetto alle loro cornici di appartenenza, qualsiasi es­se siano).

In altre parole: l’antropologa si rende conto che la propria ri­provazione in quel contesto se espressa apertamente sarebbe stata inte­sa non come un’accusa di insensibilità, ma come segno di insensibilità da parte sua. “Questa americana vuole impedirci di esternare la nostra reciproca solidarietà e partecipazione al lutto. Vorrebbe che fossimo indifferenti e insensibili come loro.”

La radice dì questi malintesi non è dovuta a mancanza di informazioni sui comportamenti, ma sulle cornici, sulle reazioni alle reazioni alle reazioni reciproche.

Gregory Bateson ha dato un nome a quei segnali che andiamo a cercare o mettiamo in evidenza quando, in situazioni di ambivalenza, si sente la necessità di precisare in quale contesto si opera. Li ha chia­mati “segna contesto”. Alcuni esempi sono la stretta di mano dei pugili prima dell’incontro che sta ad indicare che è vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno “sportivamente”; oppure la cornice del palcosce­nico che indica che è vero che le persone che si muovono in quel con­testo si sposeranno, divorzieranno, daranno in escandescenze e quant’altro, ma stanno “solo” recitando. Oppure ancora lo studio dello psicoterapeuta dentro il quale le stesse domande che altrove verrebbero vissute come intrusioni nella privacy altrui, diventano legittime e ac­quistano un diverso significato.

Anche tutti i segni e segnali che Mary Catherine Bateson (nella ricostruzione fenomenologica che abbiamo fatto) va a cercare per verificare fino a che punto le proprie cornici siano o no condivise dalle protagoniste della conversazione ed eventualmente in base a quali altre cornici esse operi­no, sono dei segna contesto.

L’antropologa è consapevole che “gli stessi comportamenti” possono avere significati diversi a seconda del tipo dì messaggi non verbali ed emozionali che circolarmente li accompagna­no e dei retroterra culturali in cui si collocano.

Un unico episodio di dissonanza è già una base sufficiente per delle prime generalizzazioni (congetturali) sulle matrici percettive-valutati­ve che valgono nella cultura di origine di chi osserva, in quanto sulla base della propria esperienza Mary Catherine Bateson può già asserire: “Nel New England comportamenti simili in circostanze analoghe sarebbero tipi­camente interpretati in un modo diverso, opposto”.

Per ricostruire le matrici percettivo-valutative alle quali le due donne hanno attinto è necessario esplorare il loro più ampio retroterra culturale, collezionando una serie dì esperienze analoghe e cercando di capire come si connettono fra loro.

Ed è quello che Mary Catherine Bateson, come vedremo, fa.

Alcune settimane più tardi nello stesso vicinato ma in una zona che Mary Catherine Bateson non aveva frequentato, ci fu un decesso e la famiglia di cui era ospite la invitò ad andare con loro alla veglia funebre. Mary Catherine molto imbarazzata cercò di premunirsi chiedendo una quantità di informazioni su come la veglia era organizzata e come do­veva comportarsi. Seppe così che si sarebbe protratta fino a notte tarda e che tutti erano tenuti a dare un piccolo obolo di meno di un dollaro alla giovane donna rimasta orfana di madre.

L’antropologa nota l’ambiente: come e dove è disposta la salma, le lampade funerarie, l’abitazione, ecc.; poi l’annotazione dei comportamenti dei parenti e dei vicini, gli argomenti delle conversa­zioni. I giovani che giocano e si corteggiano nel cortile, proprio davan­ti alla porta di casa e il barbecue e i giochi d’azzardo allestiti nel cortile, il clima festoso e le risate chiassose che echeggiano dentro la camera mortuaria sovrapponendosi ai sospiri e alle lacrime.

Nota i suoi sentimenti. La sua riluttanza già a parte­cipare a questa veglia, ad intromettersi nel dolore di una famiglia che non aveva mai conosciuto; il suo imbarazzo quasi paralizzante nel por­gere l’obolo. Il senso di sconforto e spaesamento nel trovarsi in mezzo a gruppi di adolescenti impegnati in rumorosi giochi di parole e imita­zioni dei versi di animali tipo “Nella Vecchia Fattoria” a pochi metri dal cadavere e dalla famiglia in lutto. Poiché era stata informata, sapeva come comportarsi, ma i suoi sentimenti rimanevano in contrasto con i suoi comportamenti.

I sentimenti, che corrispondono a modi abituali di inquadrare” gli eventi, non sono cambiabili a comando.

“Per un’americana con un retroterra protestante e anglosassone come il mio – afferma Mary Catherine Bateson — la morte esige silenzio e decoro, il rispetto della privacy, delle persone in lutto e un certo distacco dalle preoccupazioni più materiali della vita quotidiana. Più tardi compresi che la mia presenza aveva rappresentato un onore straordinario reso al­la defunta. Che i giochi e schiamazzi erano considerati necessari per evitare il senso dì solitudine ed efficaci strumenti di conforto, in quan­to il conforto è inconcepibile senza convivialìtà. Inoltre le veglie sono tradizionalmente considerate delle occasioni particolarmente adatte ai corteggiamenti.”

I materiali per le bisociazìoni sono piuttosto evi­denti: da un lato la partecipazione al lutto si esprime col silenzio e de­coro, dall’altro con schiamazzi e giochi. Da un lato la visita di un’estra­nea è vista come un’intrusione, dall’altro come grande onore. Da un lato la morte e i corteggiamenti vanno tenuti separati, dall’altro è giu­sto che coesistano e si sovrappongano. Su ognuno di questi comporta­menti potremmo immaginare il fiorire di malintesi interculturali. Incominciamo anche a vedere dei fili che connettono i due episodi fra loro: “II conforto è inconcepibile senza convivialìtà; la morte non è un evento privato, ma pubblico, che va celebrato mostrando che la vita continua”,

Un’obiezione che viene spesso rivolta alla generalizzazione etnogra­fica è che non si può passare da affermazioni del tipo “Ecco come mi sento e come tenderei a reagire in queste circostanze” ad altre più gene­rali del tipo “Ecco come si sentirebbe e come reagirebbe un’americana con un retroterra protestante e anglosassone”

Questa critica è dovuta ad un equivoco che la difficoltà ad esprimere a parole la dissonanza fra cornici tende a perpetuare. Quando Mary Catherine afferma: “Per un’americana con un retroterra ecc…” non in­tende sostenere che ogni americana di fronte agli schiamazzi della ve­glia funebre della periferia di Manila si comporterebbe nello stesso modo. Infatti, alcune potrebbero reagire con sdegno (chiedendo di “ri­spettare” in silenzio il dolore dei parenti), altre chiudendosi in un timi­do riserbo, altre ancora (certamente un’esigua minoranza) cercando di unirsi ai giochi e canti. La questione non riguarda Ì comportamenti, ma le cornici. Una persona cresciuta in New England se decide di unirsi ai giochi e canti tipo “Nella Vecchia Fattoria” deve comunque estire un delicato processo di uscita dalle proprie cornici di origine. E deve cercare di gestirlo nel senso di un arricchimento, una maggiore apertura del ventaglio di scelte e non nel senso di uno sradicamento, può farlo in modo patologico oppure creativo, come è successo a Mary Catherine Bateson nel seguente episodio. Ma farlo in modo creativo richiede au­toconsapevolezza emozionale.

Mesi più tardi, sempre a Manila, sono l’antropologa e suo marito ad essere colpiti da un lutto. Il loro bambino nato prematuro, muore. In questa dolorosissima circostanza, sia Mary Catherine che suo mari­to si trovarono a dover gestire sìa le condoglianze dei colleghi america­ni del marito che degli amici filippini dell’antropologa.

I primi si pre­sentavano scuotendo la testa con aria addolorata, privi di parole, si li­mitavano a una forte stretta di mano e si ritiravano rapidamente per ri­spettare la privacy del loro amico e della sua consorte.

I filippini arriva­vano con aria enfaticamente cordiale: “È così triste che il vostro bam­bino sìa morto. Lo avete visto? A chi assomigliava? L’avete battezzato? Quanto pesava? Quanto è durato il parto?” ecc… In questo caso Mary Catherine si è trovata in un dilemma: non poteva né voleva impedire agli amici filippini di comportarsi secondo Ì loro costumi e d’altra parte non voleva neppure reagire al dolore che queste domande le evocavano con un atteggiamento di rigido autocontrollo che sarebbe stato interpretato come insensibilità. Grazie alla sua prece­dente esperienza sul campo, ricorda la scena di Ana e Alìng Binang,

e questo ricordo le porege la soluzione del conflitto.

Mentre imbarazzata rispondeva con fatica a queste domande, si lasciò andare a piangere a calde lacrime e trovò che la spontanea e non allarmata comprensione dei suoi visitatori, le recava un gran conforto. A posteriori si accorse, per dirlo con le parole del gioco dei nove punti, che invece di accontentarsi di collegare fra loro solo sei o sette o otto punti, cosi facendo usciva dal quadrato e li collegava tutti e nove.

7 – Superare le incomprensioni
08 – Il linguaggio del corpo

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